Inevitabilmente ognuno interpreta l’opera d’arte secondo i propri codici. Nomadland, il film di Chloé Zhao con Frances McDormand, che ha ottenuto il Leone d’oro alla 77a Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è stato interpretato e letto in molti modi dalla critica e dagli spettatori, spesso cogliendone l’aspetto più “economico” e “sociale”. Chi volesse vederlo attraverso gli strumenti dell’ecocritica troverebbe pane per i suoi denti.
La protagonista è una neo-nomade per scelta. Lo apprendiamo lungo la strada, lunghissima che lei stessa attraversa in un’America spoglia e silenziosa (che ricorda “Into the wild” ma anche “Paris, texas”), incontrando altri neo-nomadi che forse solo per caso assomigliano ai primi coloni europei delle Americhe.
All’inizio il personaggio di Fern potrebbe essere uscito da un’opera di Ken Loach: la cittadina dove viveva si è spopolata in seguito alla crisi industriale, il marito ha perso la vita e lei, apparentemente, è stata costretta a vivere in un camper. Apparentemente. Apprenderemo, nel corso del film, che la sua scelta “nomade” arriva da più lontano. Da prima di sposarsi. E se si è fermata in quella città ormai scomparsa, cancellata per decreto persino dai codici postali, lo ha fatto solo per amore.
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Fern è la rivoluzione dei paradigmi. Non è “homeless”, come lei spiega ad una bambina, ma una “houseless”. Non è una “senzatetto” ma una persona che ha scelto liberamente di non avere una casa. O, meglio, la sua casa è quel camper dove tutto è ridotto all’essenziale. Viaggiatrice leggera. Che via via lo diventa sempre di più. Ciò che conta alla fine del racconto filmico è la capacità di questi neo-nomadi di essere una comunità diffusa, capaci di ricollegarsi dopo giorni, mesi o anni e aiutarsi fra loro. Capaci di cooperare e vivere pacificamente in utopia possibile forse solo in quei grandi spazi americani che Jean Baudrillard tanto efficacemente descriveva in “America” (perché qualcuno non lo ristampa? ndr).
Il film scorre lentissimo nella prima mezz’ora. Non accade nulla perché in quegli spazi nulla può accadere. Fern vive di lavori saltuari che le consentono di essere sempre in movimento. Solo da un certo punto in poi la storia si anima: conosciamo altri nomadi, conosciamo altri possibili spazi, dove la natura stessa si anima (meraviglioso l’istante in cui vediamo, come lo spettro carnale di uno spirito guida, uno splendido esemplare di bufalo, specie un tempo numerosissima e oggi ridotta al lumicino).
Pietre, umani, animali, cieli, acqua. La regista non è Malick né vuole esserlo anche se gli elementi con cui i cineasti trattano sono gli stessi. Di Chloé Zhao, che qui scrive, sulla scorta del libro-inchiesta pubblicato tre anni fa da Jessica Bruder, dirige e monta. Sappiamo che la prossima fatica sarà un film di supereroi Marvel, ma con questo, intanto, ha messo una seria ipoteca sui prossimi Oscar.
Sembra un film piccolo e, all’inizio, forse anche noioso, poi cresce fino a uscire dallo schermo, come un’esperienza lisergica.
Non esplode come Zabriskie Point, e al posto dei Pink Floyd qui c’è una splendida colonna sonora di Ludovico Einaudi che, per un gioco di specchi culturali, ricordiamo averlo sentito suonare (non lo stesso pezzo, ovviamente) contro i cambiamenti climatici su un guscio di ghiaccio in Artide. Questa “terra dei nomadi”, che in inglese suona anche un po’ come la terra senza uomini (Nomadland… no-man-land), è anche il rovesciamento del distanziamento sociale: questi splendidi personaggi vivono distanziati ma mai socialmente.
Il loro saluto è: ci vediamo sulla strada. Da Thoreau a Kerouac, verso l’infinito.
Nomadland
di Chloé Zhao
con Frances McDormand, David Strathairn, Linda May, Swankie, Bob Wells
Usa, 108’