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Jafar Panahi al Festival di Berlino nel 2006. Il regista iraniano è stato arrestato ieri (Foto: Wikimedia Commons)

Iran, l’arresto di Panahi e il cinema che spaventa i regimi

Il pluripremiato regista è stato incarcerato nuovamente lunedì, come già accaduto molte volte negli ultimi decenni. Prima di lui altri colleghi e colleghe. La prova della forza pervasiva del cinema iraniano. Che, seppur in clandestinità, terrorizza il regime del paese mediorientale
12 Luglio, 2022
5 minuti di lettura

È il terzo in meno di una settimana, ma il suo nome è probabilmente quello più conosciuto a livello internazionale. Jafar Panahi è il terzo regista arrestato a Teheran nel giro di pochissimi giorni, dopo i colleghi Mohammad Rasoulof e Mostafa Al-Ahmad, nei confronti dei quali Panahi aveva espresso solidarietà sui social, condannando l’aggressione che i due film maker avrebbero subito nelle loro case, così come la sistematica violazione dei diritti umani e civili nel paese mediorientale.

«Jafar Panahi è stato arrestato oggi quando è andato all’ufficio del pubblico ministero per avere aggiornamenti sulla situazione di un altro regista, Mohammad Rasoulof», ha riportato lunedì 11 luglio l’agenzia di stampa iraniana non ufficiale Mehr.

 

Già assistente alla regia di Abbas Kiarostami, Panahi, 62 anni, vincitore della Caméra d’or al festival di Cannes nel 1995 con Il palloncino bianco, Pardo d’oro al festival di Locarno nel 1997 con Lo specchio e Leone d’oro a Venezia nel 2000 per Il cerchio, è un veterano degli arresti arbitrari nel suo Paese. Nel 2010 fu condannato a sei anni di reclusione, tramutati poi in arresti ai domiciliari. Fece scalpore il suo arresto, avvenuto proprio in concomitanza con la cosiddetta Onda Verde, il movimento di rivolta che coinvolse studenti, intellettuali, dissidenti e cittadini esasperati dalla rielezione irregolare di Mahmud Ahmadinejad alle presidenziali del 2009.

Allora Panahi fu messo in prigione insieme a Rasoulof, con il quale stava preparando un film sull’Onda verde. Per entrambi l’accusa di «propaganda contro il governo» e di «attentare alla sicurezza pubblica».

Il regista è stato da sempre considerato scomodo, semplicemente perché i suoi film, sospesi tra realismo asciutto, scarno e al tempo stesso intrisi di struggente poesia, hanno raccontato al mondo la vita degli iraniani dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, la sofferenza della borghesia colta e quella delle classi popolari, unite dalla stessa oppressione, che il più delle volte si riversa soprattutto sulle donne e sui bambini, entrambi protagonisti prediletti da Panahi. E sono infatti storie di bambini sia l’esordio Il palloncino bianco che il successivo Lo specchio, che il Morandini definisce «Una deliziosa variazione su due temi di base del cinema iraniano: i bambini e il cinema nel cinema».

 

È la rinascita zavattininana di quello sguardo che fece grande il cinema italiano nel secondo dopoguerra, «Attraverso i bambini e il loro sguardo “ingenuo” si possono aggirare i veti della censura, togliendo il velo alla realtà sociale. “Non succede niente”, ma intenerisce, diverte, commuove, incanta e fa pensare».

Imparata la lezione dal maestro Kiarostami (mutuata dai Rossellini, dai De Sica, ma anche da Truffaut e non a caso Panahi è definito il regista simbolo della Nouvelle Vague iraniana), Jafar Panahi usa piani sequenza e inquadrature fisse, cinema di finzione e cinema verità, con attori professionisti e attori presi dalla strada, spesso ripresi a loro insaputa. Al centro, semplicemente il racconto della vita, magmatica e avvincente, con i suoi colori, i colori forti e spesso soavemente cupi di interni così lontani eppure così famigliari, una fotografia sporca ma mai ad effetto, coinvolgente come la realtà.

 

Guarda il trailer di “Lo specchio”

 

Arrestato una prima volta nel 2009 nel cimitero di Teheran dove si trovava per una visita funebre, viene rilasciato ma gli viene confiscato il passaporto e impedito di lasciare il paese. Non parteciperà per questo motivo al Festival di Berlino del 2010, dove era atteso come giurato. Nel 2010 viene arrestato di nuovo, stavolta con la moglie, la figlia e 15 amici, tra cui Rasoulof. Verranno rilasciati tutti, tranne Panahi che resta in carcere. Il cinema internazionale si mobilita, tutti i grandi i nomi, da Ken Loach a Robert de Niro, dai Dardenne a Jim Jarmuch, da Ang Lee a Scorsese e Redford ne chiedono il rilascio immediato, e al Festival di Cannes viene nominato provocatoriamente giurato, al suo posto una sedia vuota. Condannato a sei anni di prigione con l’accusa di “terrorismo intellettuale” e di aver ordito film di propaganda anti governativa, gli viene vietato di lasciare il paese e di dirigere film e scrivere sceneggiature fino al 2030.

 

 

Nonostante il divieto, per nostra fortuna, Panahi ha continuato a fare film di enorme potenza, come Closed Curtains premio della sceneggiatura alla Berlinale 2013, e lo splendido Taxi Tehran, Orso d’oro 2015. Taxi Teheran incanta la Berlinale, con Darren Aronofsky, presidente della giuria, che dichiara:

«Invece di lasciarsi pervadere dalla collera e dalla frustrazione, Jafar Panahi ha scritto una lettera d’amore al cinema. Il suo film è colmo d’amore per la sua arte, la sua comunità, il suo paese e il suo pubblico…».

Girato in clandestinità, con un telefono cellulare, la lettera d’amore militante di Panahi è una prova di immenso coraggio (anche degli attori, che hanno rischiato molto partecipando al progetto) e un racconto così profondo della realtà da divenire leggero come le storie che si avvicendano sul veicolo. Tra queste anche quella dell’avvocata per i diritti civili Nasrine Saotoudeh, che porge rose sul cruscotto, dedicandole proprio al cinema; «Perché sulla gente del cinema si può sempre contare». Saotoudeh è stata arrestata nel 2018, ufficialmente per aver manifestato contro l’obbligo per le donne iraniane di indossare il velo, ed è tuttora detenuta in condizioni terribili, come fa sapere Amnesty International, con un deterioramento grave della salute peggiorata dopo avere contratto il Covid.

 

Jafar Panahi e l’avvocata per i diritti civili Nasrin Sotoudeh (Foto: Flickr) Entrambi hanno vinto il premio Sakharov nel 2012

 

I due film maker Rasoulof e Aleahmad erano stati arrestati lo scorso venerdì in relazione alle proteste relative alla morte di 43 persone il 23 maggio nel crollo dell’edificio di 10 piani Metropol nella città di Abadan. I manifestanti avevano chiesto che i “funzionari incompetenti” responsabili della tragedia fossero perseguiti e puniti. La polizia ha reagito con lacrimogeni, colpi di avvertimento e arresti. Un gruppo di cineasti guidati da Rasoulof, come riporta il Guardian, aveva scritto una lettera aperta al governo, chiedendo alle forze di sicurezza di “deporre le armi” di fronte all’indignazione per la “corruzione, furto, inefficienza e repressione” che circondano il crollo di Abadan. Nei mesi scorsi era toccato a Firouzeh Khosrovani  e Mina Keshavarz, registe note a livello internazionale, arrestate senza motivazione, rilasciate su cauzione lo scorso maggio. L’arresto, l’ennesimo, di Panahi è quindi solo l’ultimo, in ordine cronologico, di una serie di incarcerazioni immotivate, dalle quali traspare la profonda paura del regime iraniano nei confronti della cultura, e della potenza pervasiva delle arti visive. Ed è la prova, nonostante la repressione, della forza e dello stato di grazia del cinema iraniano. Panahi ne è il simbolo. Il regista, come tanti suoi colleghi e colleghe, attivisti e attiviste per i diritti civili, cittadini e cittadine dissidenti è da oltre un decennio prigioniero di un limbo oppressivo. Eppure non si è mai fermato.

Pochi anni fa, Solmaz Panahi, la figlia di Panahi che vive a Parigi e che ha lasciato l’Iran in modo che le autorità non la usassero come mezzo di pressione su suo padre, ha spiegato a Le Monde che «l’unica cosa che è cambiata sono le dimensioni delle telecamere che usa Jafar».

Sempre più piccole, sempre più attente, rapide, adatte a nascondersi per raccogliere vita da raccontare al mondo. Attraverso un cellulare, nascosto in una scatola di fazzoletti sul cruscotto di un’auto, nel traffico di Teheran.

 

Mielizia

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Valentina Gentile
Valentina Gentile
Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.
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