Ci sono due modi di visitare Pier Paolo Pasolini, Tutto è santo – il corpo veggente, seconda tappa dell’ambizioso progetto che tre delle istituzioni museali romane più importanti – Azienda Speciale Palaexpo, Gallerie Nazionali di Arte Antica, Maxxi Museo nazionale delle arti del XXI secolo – hanno messo in piedi in occasione del centenario della nascita dell’intellettuale, nell’ottica di una collaborazione tra organizzazioni diverse finora poco perseguita, almeno a Roma. Ci si può lasciar trasportare dalle coincidenze e dalle risonanze suggerite da Michele Di Monte, a cui si deve la curatela, oppure si possono inventare nuove correlazioni tra i 140 pezzi dislocati nel percorso, allestito fino al 12 febbraio 2023 nello Spazio Mostre di Palazzo Barberini. Le 6 sezioni dell’esposizione immergono l’auspicato osservatore partecipante in un interstizio spazio-temporale che già dal colore delle pareti richiama l’ultimo dei lavori pasoliniani, l’incompiuto Petrolio, «testimonianza di quel poco di sapere che uno ha accumulato», come ebbe a definirlo lo stesso Pasolini in una lettera a Moravia: allo stesso modo, Di Monte raccoglie molto dell’immaginario pasoliniano – debitore innanzitutto delle lezioni di Roberto Longhi e del filologo tedesco Eric Auerbach e della loro lettura di artisti come Giotto, Masaccio, Pontormo e Caravaggio – e si pone (e pone allo spettatore) una serie incessante di domande:
«qual è il ruolo di Pasolini nell’attuale cultura visiva? In che misura il nostro sguardo sulle opere del passato, la loro interpretazione e le loro suggestioni sono debitori di un modo di vedere, una sorta di “inconscio ottico”, che l’estetica e l’impegno ideologico di Pasolini ha contribuito a plasmare?».
Dipinti originali, riproduzioni («al cui ricorso le Gallerie non sono solite acconsentire», ha precisato la direttrice Flaminia Gennari Sartori in conferenza stampa), fotografie (da archivi preziosi come quello di Franco Pinna, Angelo Novi, Mario Tursi), frame di film (realizzati dal Centro Sperimentale di Cinematografia), sculture e libri («nelle stesse edizioni in possesso dell’intellettuale», ha spiegato Di Monte), arricchite dai contenuti audio forniti dalle docce sonore: una sequenza di oggetti che trovano nel montaggio tra loro la prima grande assonanza con il fare cinematografico. «Pasolini è stato uno strumento per testare l’efficacia delle opere nel fornire punti di appoggio per un discorso critico sulla contemporaneità», ha chiosato Gennari Sartori.
Il corpo veggente della seconda parte di Pier Paolo Pasolini, Tutto è santo, dopo Il corpo poetico in mostra a Palazzo delle Esposizioni (fino al 26 febbraio 2023, a cura di Giuseppe Garrera, Cesare Pietroiusti, Clara Tosi Pamphili e Olivier Saillard) e prima dell’inaugurazione al Maxxi de Il corpo politico (dal 16 novembre 2022 al 12 marzo 2023, a cura di Giulia Ferracci, Hou Hanru, Bartolomeo Pietromarchi), vede come temi di fondo ancora il tema del sacro e il tema del corpo, declinato stavolta come corpo virtuale delle immagini, corpo epifanico, corpo dello scandalo, corpo del cordoglio, corpo popolare e corpo soggetto .
Di assonanza in assonanza, coincidenze involontarie o meno, seguendo un discorso mai interrotto sulla vita nelle borgate tra l’intellettuale e Cecilia Mangini, (iniziato nel 1958, col documentario Ignoti alla città, ispirato a Ragazzi di vita e proseguito con La canta della marane nel 1961) si esplora la fame e gli stracci che legano i Mangiatori di ricotta di Vincenzo Campi, del 1580 (in prestito dal museo di Lione), il film La ricotta (quarto episodio del film Ro.Go.Pa.G, scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini nel 1963), i bambini di via del Mandrione (la zona allora degradata della Capitale era stata oggetto, negli anni Cinquanta, di un’inchiesta dell’antropologo Franco Cagnetta e del fotografo Franco Pinna); accanto 4 opere appartenenti alla collezione del museo la Vanitas di Angelo Caroselli, il Mendicante, di un pittore caravaggesco, I maccaronari di Micco Spadaro, la Contadina con canestro di Antonio Amorosi – accompagnate dalla Lavandaia di Giacomo Ceruti (in prestito dalla Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia).
E poi la croce, l’acqua, la pittura, fino alla mater dolorosa: ancora una volta referente obbligata Cecilia Mangini e il suo bellissimo Stendalì – Suonano ancora, del 1960, scritto con Pasolini e influenzato dall’analisi degli studi di Ernesto De Martino, in particolare dal saggio Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria: le prefiche di Pasolini hanno il volto di sua madre, Susanna Maria Colussi, ne Il vangelo secondo Matteo, e di Laura Betti ne La ricotta, in dialogo, con la Madonna addolorata di Jean Changenet.
Si arriva, in fondo, alla rappresentazione del sé: Il nano del duca di Créqui busto in marmo del 1633 di François Duquesnoy accanto a uno scatto di Totò sul set di Uccellacci e uccellini e, sulla parete di fronte, Narciso, dipinto attribuito a Caravaggio posto tra due fotografie di Pasolini (di Dino Pedrioli) intento a leggere, nudo, nel suo studio a Chia. Chiude la mostra, prima dei pannelli a cura di Monte, un suggestivo fermo immagine da I racconti di Canterbury, film del 1972 in cui il regista si era ritagliato per sé il ruolo di Geoffrey Chaucer, autore dei 24 racconti trecenteschi:
«Qui finiscono i Racconti di Canterbury raccontati per il solo piacere di raccontare. Amen».