Far fronte al cambiamento climatico per tutelare il mondo del lavoro. Intervista a Marco Morabito

Marco Morabito, ricercatore del Cnr (Foto: YouTube)

Far fronte al cambiamento climatico per tutelare il mondo del lavoro. Intervista a Marco Morabito

Esposizione ad alte temperature, con conseguenti infortuni e malattie, possibilità e programmi di resilienza, ma anche ripercussioni su parità di genere, diseguaglianze sociali e delocalizzazione. In attesa del suo intervento nell’ambito degli incontri di “Suoni e Segni di Vaia”, il ricercatore del CNR ci dà un quadro dell’impatto del climate change su lavoratrici e lavoratori. E su come arginarlo

«Il cambiamento climatico e soprattutto il rapido riscaldamento del pianeta, a cui è associata una maggiore frequenza e intensità di fenomeni meteo-climatici particolarmente critici, tra cui ondate di calore, tempeste, inondazioni, alluvioni, ecc., sta mettendo a dura prova chiaramente anche il mondo del lavoro, con impatti ingenti sia in termini di effetti sulla salute e conseguentemente sulla produttività dei lavoratori». Marco Morabito, primo ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto per la Bioeconomia, non ha dubbi: «Per contrastare le conseguenze del cambiamento climatico è fondamentale una risposta integrata da parte di imprese e lavoratori, supportata da politiche che ne favoriscano la cooperazione». In attesa della sua partecipazione alla conferenza dedicata al tema “Sconvolgimenti climatici e ruolo delle imprese. La sfida dell’adattamento, fra benessere dei lavoratori e intervento sul territorio”, che si terrà martedì 19 novembre alle ore 17,30 presso la Cineteca Comunale di Rimini, nell’ambito degli incontri che accompagnano la mostra “Suoni e Segni di Vaia”, gli abbiamo chiesto come il mondo del lavoro sta affrontando lo stress climatico, quali sono le conseguenze a breve e a lungo raggio e come imprese, lavoratrici e lavoratori possono divenire soggetti attivi di resilienza.

 

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Dottor Morabito, ci può fornire qualche dato su quello che il mondo del lavoro sta vivendo con il cambiamento climatico? In che modo ne subisce le conseguenze? Quali le ripercussioni su imprese? E sui lavoratori?

Per quel che riguarda gli effetti dell’esposizione alle elevate temperature dei lavoratori, fenomeno che purtroppo in molte zone del pianeta deve essere fronteggiato per periodi dell’anno sempre più prolungati, trovo particolarmente utili i risultati e i numeri forniti dall’ultimo rapporto pubblicato nel 2024 dalla Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO). In questo rapporto sono stati stimati, a livello globale, il numero di lavoratori esposti a condizioni di caldo eccessivo, con valori particolarmente preoccupanti: circa 2.4 miliardi (circa il 70% della popolazione lavorativa) di lavoratori, a cui sono associati quasi 23 milioni di infortuni e circa 19 mila decessi all’anno. Situazione che si traduce anche in un importante impatto economico, con spese consistenti per il sistema sanitario ma anche per le aziende che devono far fronte alla gestione delle assenze del personale o alla generale ridotta produttività dei lavoratori che, in qualche modo, pur continuando a lavorare, si adattano all’esposizione alle elevate temperature rallentando in generale e direi “fisiologicamente” il ritmo di lavoro. L’ILO stima che entro il 2030 (quindi tra pochi anni), considerando un aumento della temperatura media globale di 1.5 °C entro la fine di questo secolo, andrà perso circa il 2.2% del totale delle ore di lavoro in tutto il mondo a causa delle elevate temperature, equivalente alla perdita di circa 80 milioni di posti di lavoro a tempo pieno. Il tutto associato a perdite economiche globali di circa 2400 miliardi di dollari. Dati particolarmente allarmanti se consideriamo che questa stima si riferisce a una previsione di aumento della temperatura media globale non superiore a 1.5 °C per la fine di questo secolo, soglia che purtroppo potrebbe anche essere superata. Sono poi da considerare i danni legati ad altri fenomeni meteo-climatici altrettanto impattanti, come le tempeste, le alluvioni e le inondazioni e che rappresentano una minaccia crescente per il settore lavorativo e in particolare per le aziende, causando soprattutto distruzione di infrastrutture e conseguenti interruzioni prolungate di attività lavorative. Si tratta quindi di una situazione particolarmente critica che richiede azioni politiche concrete per mettere in condizione le aziende di pianificare e gestire tali rischi anche con strategie a lungo termine, investendo quindi in infrastrutture resilienti e assicurazioni adeguate.

Come si può agire per arginare tutto questo?

Per quanto riguarda i lavoratori bisognerà agire migliorando la formazione e l’informazione indirizzata alla gestione di situazioni meteo-climatiche particolarmente critiche supportando iniziative come la partecipazione a programmi di resilienza finalizzati al miglioramento della sicurezza e delle condizioni lavorative in settori particolarmente esposti ai rischi climatici. Fondamentale sarà anche l’investimento in progetti di sostenibilità condividendo anche quelle che sono le best practice di aziende che hanno già implementato strategie di successo per la resilienza climatica. Per contrastare le conseguenze del cambiamento climatico è quindi fondamentale una risposta integrata da parte di imprese e lavoratori, supportata da politiche che ne favoriscano la cooperazione e permettendo alle aziende di adattarsi e innovare, mentre ai lavoratori di aggiornare le loro competenze e proteggere la propria salute mantenendo alta la produttività.

Ci sono degli esempi concreti?

Un esempio concreto in tal senso a livello nazionale è sicuramente il progetto nazionale Worklimate 2.0 il cui obiettivo è quello di valorizzare e approfondire le conoscenze acquisite relativamente agli impatti delle temperature estreme sulla salute, sicurezza e produttività aziendale, migliorando e implementando strumenti e strategie di intervento già disponibili e dedicate a vari settori lavorativi oltre che sviluppando nuove soluzioni tecnologiche, informative e formative per una migliore azione di prevenzione e gestione del rischio a livello aziendale di utilità per i lavoratori, le figure della prevenzione (RSPP, RLS, DL e MC) e i datori di lavoro. Nell’ambito del progetto, tra le varie attività, è stata costruita una rete articolata di imprese, aziende, organizzazioni datoriali e sindacali finalizzata all’adozione di linee-guida e procedure concordate indirizzate alla riduzione degli effetti del cambiamento climatico sulla salute e sicurezza dei lavoratori, in particolare quando esposti a temperature estreme.

Ci sono contesti geografici particolarmente colpiti? Qual è la situazione in Europa? E in Italia?

I contesti geografici che descrivono gli effetti del cambiamento climatico sul mondo del lavoro variano in funzione del fenomeno meteo-climatico considerato. Ci sono infatti aree geografiche che stanno vivendo in modo particolarmente critico le conseguenze del cambiamento climatico, a causa della loro posizione geografica, delle condizioni climatiche e delle caratteristiche socioeconomiche. Ad esempio, sempre facendo riferimento all’ultimo rapporto dell’ILO pubblicato nel 2024, a livello globale le regioni dell’Africa, gli Stati arabi, l’Asia e le regioni del Pacifico sono quelle che mostrano le percentuali più alte di forza lavoro esposta a caldo eccessivo, con valori percentuali della forza lavoro variabili tra circa il 75% dei paesi asiatici e del Pacifico al 93% di quelli africani.

 

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L’Europa però, insieme alle regioni dell’Asia centrale, ha mostrato il maggiore aumento della forza lavoro esposta al caldo eccessivo, con un aumento di circa il 17% dal 2000 al 2020, cioè quasi il doppio dell’aumento medio osservato a livello globale (circa il 9% dal 2000 al 2020). Per quel che riguarda l’impatto del caldo in termini di infortuni sul lavoro, invece, l’Europa risulta tra le regioni con in cui è stato osservato il più rapido incremento degli infortuni caldo-correlati a partire dal 2000, facendo registrare un aumento di oltre il 16%. Evidenze scientifiche a livello italiano e in particolare lo studio più ampio condotto in Italia ha esaminato oltre 2 milioni di infortuni nel periodo 2006-2010, stimando che più di 5.000 infortuni all’anno fossero attribuibili a temperature estreme, di cui circa 4000 associati a condizioni di caldo, pari a circa 1,15% del totale degli infortuni. Risultati supportati anche in studi successivi condotti nell’ambito del progetto nazionale Worklimate e indirizzati a valutare la situazione per settori specifici particolarmente vulnerabili alle esposizioni alle temperature estreme, come il settore dell’agricoltura (in cui sono stati stimati oltre 400 infortuni caldo-correlati all’anno) e delle costruzioni (con oltre 500 infortuni caldo-correlati all’anno).

Pensa che la crisi climatica abbia danneggiato o contribuito a danneggiare, sminuire, bloccare le conquiste in ambito di diritti sociali ed economici che i lavoratori e le lavoratrici avevano conquistato nello scorso secolo?

Personalmente credo che a livello globale la crisi climatica abbia avuto, e continua ad avere, un impatto rilevante sui diritti sociali ed economici dei lavoratori ottenuti nel secolo scorso. La situazione è chiaramente più critica in zone del pianeta maggiormente affette da disastri legati a fenomeni meteo-climatici estremi e in cui gli effetti sono particolarmente tangibili anche nel settore lavorativo, con chiusura di aziende (e conseguente aumento della disoccupazione) o delocalizzazione delle stesse in aree al momento più sicure. La maggior frequenza con cui si stanno verificando fenomeni meteo-climatici estremi sta sicuramente mettendo a dura prova soprattutto i lavoratori con salari più bassi, i lavoratori stagionali e occasionali o non regolamentati. Impatti importanti sono già facilmente osservabili in alcuni settori lavorativi, tra cui quello dell’agricoltura (ma non solo), in particolare nelle piccole aziende a carattere familiare che spesso faticano nel trovare risorse necessarie per mettere in atto strategie di resilienza al cambiamento climatico. Sicuramente la transizione che stiamo vivendo verso un’economia verde ha creato anche nuove opportunità associata però anche a nuovi lavori spesso temporanei o comunque meno stabili rispetto a quelli tradizionali, fenomeno quindi che può contribuire a una maggiore precarizzazione del lavoro e a condizioni meno protette rispetto ai diritti conquistati in passato.

Quindi i diritti delle lavoratrici e dei lavoratori sono minacciati dal cambiamento climatico…

Il generale peggioramento delle condizioni ambientali lavorative, soprattutto delle attività che si svolgono all’aperto, minaccia sempre più il diritto di lavorare in un ambiente sicuro. Molte aziende, inoltre, non sono purtroppo preparate ad affrontare questa rapida evoluzione climatica, esponendo sempre più i propri lavoratori a stress legati a fenomeni meteo-climatici intensi e spesso estremi con problematiche importanti per quel che riguarda la salute mentale e fisica dei lavoratori e una maggior frequenza di malattie legate soprattutto allo stress termico. Non sono da sottovalutare anche gli impatti che il cambiamento climatico può avere sulle disuguaglianze di genere o etniche in ambito lavorativo, con impatti significativi sulle donne o sui lavoratori stranieri che ricoprono spesso ruoli più precari e meno tutelati. Situazione aggravata ulteriormente proprio dalle migrazioni di tante persone che ricercano rapidamente condizioni di vita più adeguate rispetto a quelle dei propri paesi di origine in cui la crisi climatica impedisce condizioni di vita sostenibili. È necessario agire su più fronti utilizzando un approccio che integri giustizia sociale e ambientale, quindi rafforzando le norme sulla sicurezza sul lavoro per affrontare i nuovi rischi climatici, coinvolgendo sempre più i lavoratori nei processi decisionali legati alla transizione climatica, rafforzando quindi il dialogo sociale e adottando misure specifiche per proteggere i lavoratori più vulnerabili, tra cui i lavoratori precari e le fasce più deboli della società.

Per restare su un tema controverso e molto discusso, qual è il rapporto tra crisi climatica, mondo del lavoro e migrazioni?

Si tratta di un rapporto complesso, in continua evoluzione e che sicuramente rischia di intensificarsi nei prossimi anni se non vengono adottate misure di contrasto adeguate. Come già detto, la crisi climatica sta influenzando significativamente la mobilità umana, contribuendo a spostamenti interni a un paese o più spesso tra paesi o continenti diversi, influenzando la stabilità economica e lavorativa delle persone. Eventi come siccità, desertificazione, ma anche inondazioni e altri fenomeni meteo-climatici estremi stanno favorendo in alcune zone del pianeta (soprattutto nella fascia equatoriale e sub-tropicale) migrazioni forzate causate da condizioni climatiche. La situazione conseguente a questa migrazione climatica è aggravata dal fatto che i paesi che dovrebbero o potrebbero accogliere questo flusso di persone non è spesso preparata a gestire i numeri in questione e soprattutto è complessa la cooperazione tra i vari paesi che dovrebbero adoperarsi in tal senso. Si tratta di una situazione che sta già mettendo in crisi molti mercati del lavoro nelle città o nei paesi di destinazione, creando concorrenza per lavori spesso insufficienti rispetto alle necessità e peggiorando le condizioni lavorative e i salari dei lavoratori. I lavoratori stranieri, dovendo affrontare situazioni complesse dettate soprattutto da barriere linguistiche, oltre che culturali, risultano sempre più vulnerabili perché poco o per nulla informati sui loro diritti, sulle conoscenze per lavorare in salute e sicurezza tenendo anche conto di quelli che sono i rischi dell’ambiente in cui si trovano a operare. Proprio per questo motivo, nell’ambito del progetto Worklimate 2.0, abbiamo provveduto alla traduzione in varie lingue (quelle in cui c’è maggiore prevalenza di forza lavoro straniera a livello italiano nei settori dell’agricoltura e delle costruzioni) di materiale informativo per contrastare gli effetti del caldo in ambito lavorativo. Sul sito di progetto sono quindi disponibili informative in varie lingue (rumeno, albanese, francese, hindi e arabo, oltre che in inglese), sulle patologie da calore e la loro prevenzione, sulle condizioni croniche che aumentano la suscettibilità al caldo, sull’importanza dell’idratazione e le pause programmate, nonché sull’alimentazione. Si tratta di informazioni utili per un’efficace pianificazione degli interventi aziendali in materia di prevenzione del rischio microclima da adottare nell’ambito della specifica organizzazione del sistema di prevenzione aziendale con un’attenzione specifica ai lavoratori stranieri.

Date le premesse cosa c’è da aspettarsi per i prossimi anni?

Conoscendo quelli che sono gli scenari climatici è facile immaginare che tali flussi di migrazioni climatiche aumenteranno sempre più. Senza interventi significativi, gli impatti potrebbero aggravare le disuguaglianze economiche, destabilizzare mercati del lavoro e compromettere i diritti dei lavoratori. Sarà quindi fondamentale sviluppare politiche di accoglienza che garantiscano l’integrazione dei migranti climatici nei mercati del lavoro, proteggendo i loro diritti e investendo in programmi di riqualificazione che possano facilitare il loro ingresso in settori con carenza di manodopera, oltre che sviluppare efficaci processi formativi e informativi indirizzati nello specifico a lavoratori stranieri. Sarà altresì necessario rafforzare le politiche di adattamento al cambiamento climatico e le strategie di mitigazione nelle regioni più vulnerabili perché maggiormente esposte a disastri meteo-climatici, contribuendo a ridurre nei luoghi di origine il numero di persone costrette a migrare a causa di condizioni ambientali insostenibili.

Che ruolo ha e avrà, secondo lei, la delocalizzazione?

Lo spostamento delle attività produttive da un paese all’altro per motivi economici è un fenomeno molto complesso nella lotta al cambiamento climatico e con effetti diversificati. Uno dei problemi principali dovuto alla delocalizzazione è spesso legato al fatto che le emissioni di gas serra associati a un sistema produttivo non vengono eliminate, ma semplicemente spostate o trasferite (carbon leakage) in paesi diversi con standard e regolamentazioni ambientali meno rigorose. Situazione che può portare anche a un aumento delle emissioni globali, aumentando quindi l’impatto del cambiamento climatico. Altra conseguenza della delocalizzazione in paesi con standard di protezione ambientale molto bassa è un generale peggioramento della qualità dell’aria e dell’acqua associata anche alla distruzione degli ecosistemi locali. Situazione quindi che aumenta ulteriormente le disuguaglianze ambientali e sociali tra i vari paesi. Sicuramente la delocalizzazione può favorire un aumento della domanda di lavoratori nei paesi ospitanti, ma spesso anche a scapito di condizioni lavorative più precarie e diritti limitati dei lavoratori. Diverso è invece il discorso se la delocalizzazione avviene verso paesi che adottano energie rinnovabili e tecnologie ecologiche. In questo caso, infatti, il processo produttivo diventa più sostenibile ed efficace nella lotta al cambiamento climatico. Sono quindi determinanti politiche globali coordinate tra i vari paesi che incentivino la sostenibilità nelle catene di approvvigionamento e supportino la transizione verso un’economia verde basata sull’uso di fonti energetiche rinnovabili e che riducano sensibilmente, o eliminino completamente, le emissioni di carbonio in tutti i paesi.

Saperenetwork è...

Valentina Gentile
Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.

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