Miniere illegali, malaria, Covid-19. Il grido degli Yanomami dalla Foresta Amazzonica
Da popolo incontattato a vittime del crimine e della negligenza, la storia degli Yanomami è l’emblema della condizione dei popoli indigeni nel XXI secolo. Ma il legame con la foresta è più forte. Nonostante le pressioni dei cercatori d’oro e la minaccia di malattie contro cui non hanno difese, con tenacia continuano a battersi
Nella zona di foresta compresa tra i bacini dei fiumi Onirico e Rio delle Amazzoni, vivono gli Yanomami, un popolo culturalmente incontaminato. Sono oltre 27mila, e da sempre vivono in armonia con il loro territorio a cavallo tra il Brasile e il Venezuela. In un villaggio possono esserci fino a 400 Yanomami che vivono tutti sotto uno stesso tetto, lo “shabono”. Il loro ritmo quotidiano è scandito dalla coltivazione di tuberi, tabacco e banani, mentre con la pesca e la caccia ricavano le adeguate fonti proteiche.
Momento storico. Gli spiriti degli Yanomami danzano sulle pareti del Congresso brasiliano per lanciare un messaggio al mondo. Stupendo, non è vero?
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Il patto secolare con la Foresta
Dipendono dalla foresta e con essa hanno stretto un patto secolare di reciproco rispetto. Grandi osservatori della natura, utilizzano giornalmente circa 500 specie diverse di piante. «Varie specie fibrose – ha spiegato a Survival International l’etnobotanico William Milliken – sono utilizzate per realizzare corde e fasce, per intrecciare cesti e amache temporanee. Mentre da molte altre ricavano tinture, veleni, medicine, pitture per il corpo, tetti, profumi, droghe allucinogene e così via».
Conoscitori di piante e animali
Vivere nella foresta obbliga a conoscerla, e gli Yanomami lo fanno sapientemente. Sulla base delle loro esperienze, acquisiscono informazioni circa le relazioni tra piante e animali.
«Per esempio – continua Milliken – sanno quali sono gli alberi che, una volta caduti e in fase di decomposizione, ospitano larve d’insetto commestibili. Conoscono le specie che nutrono la popolazione dei bruchi commestibili in certi periodi dell’anno, e quali sono i fiori preferiti dalle numerose specie di api da miele selvatico che loro riconoscono».
L’arrivo dei cercatori d’oro
Prima dell’arrivo dei garimpeiros, i cercatori d’oro, la vita degli Yanomami procedeva indisturbata, tant’è che gli unici contatti erano stati con missionari religiosi e, sporadicamente, con coltivatori di gomma. Poi, tutto è cambiato. Sfortuna ha voluto che il loro territorio fosse ricco di giacimenti, cosicché, già a partire dalla fine degli anni ‘80, i minatori, specie quelli illegali, hanno iniziato a devastare la loro terra.
L’inizio della carneficina
«Gli Indiani del vicino villaggio di Haximu sono tutti qui… non vogliono tornare a casa perché cercatori d’oro sono entrati in una maloca (casa comune) e hanno ucciso sette bambini, cinque donne e due uomini, e poi l’hanno distrutta». Così, in un messaggio frammentario del 1993, risuonavano le parole di una suora missionaria, al tempo, in servizio nel villaggio di Xitei. Fu la prima ad annunciare il massacro di sedici Yanomami ad opera dei minatori illegali. Un atto meschino che fu solo l’inizio di un’era di soprusi e violenze.
L’invasione e le malattie
Si stima che tra il 1986 e il 1992, la terra yanomami fu invasa da più di 40mila cercatori d’oro che, oltre alle violenze dirette e alla distruzione delle risorse naturali, portarono malaria ed altre malattie. Oltre il 20% della popolazione indigena interessata, morì. Fino a poco prima gli Yanomami erano, infatti, un “popolo incontattato” e, come altre centinaia di tribù simili sparse nel mondo, condividevano con queste una letale caratteristica: la vulnerabilità alle malattie infettive.
Malaria, vulnerabilità e rischio estinzione
Per quanto mortale, qualunque malattia stimola una risposta immunitaria nelle popolazioni umane, ma se il contatto con l’agente infettivo non è mai avvenuto, le cose cambiano. Gli Yanomami, come altri gruppi etnici isolati, non hanno quindi difese immunitarie contro patologie altrove comuni, con il rischio che perfino una varicella potrebbe portarli sull’orlo dell’estinzione. Popolazioni generalmente ridotte in numero ed una bassa variabilità genetica non fanno altro che aggravare la situazione. «Quattro dei nostri fiumi, Uraricoera, Mucajaí, Apiaú e Alto Catrimani, sono inquinati. La situazione sta peggiorando, arrivano sempre più minatori. Non portano niente di buono, portano solo problemi. La malaria qui è già aumentata, e ha ucciso quattro dei nostri bambini», denunciò qualche anno fa Davi Kopenawa, portavoce degli Yanomami in Brasile.
L’incubo del coronavirus
Le cose, ad oggi, non sono ancora cambiate: lo ha ribadito un recente rapporto redatto dalle organizzazioni Yanomami e Ye’kwana (un altro gruppo etnico) insieme a un gruppo di ricercatori appartenenti alla Rete Pro-Yanomami e Ye’kwana. Attività minerarie illegali, malaria ed ora Covid-19, questa la distruttiva combinazione che minaccia le popolazioni del più grande territorio indigeno del Brasile. L’incidenza della malaria è quadruplicata negli ultimi cinque anni, e la debilitazione che deriva dal convivere con questa patologia certamente non aiuta a fronteggiare un nuovo patogeno.
Una diffusione spaventosa
A questo si somma la negligenza del governo che, secondo gli autori del report, avrebbe permesso la rapida diffusione del coronavirus tra gli Yanomami. Più di un terzo della popolazione totale presente nell’area è stata già colpita dalla Covid-19 e, nonostante i casi confermati siano passati da 335 a 1202 in soli tre mesi, meno del 5% degli abitanti è stato sottoposto a test diagnostici. «Ci siamo ammalati tutti. La nostra foresta si è ammalata. È la pista di atterraggio dei minatori, perché lì atterrano molti aerei. Quando ne arriva uno, scendono molte persone, e con gli aerei è arrivata anche questa malattia. È un morbo molto forte!», questo il grido disperato di una donna yanomami che, nonostante una scarsa conoscenza dei fenomeni epidemiologici, ha saputo riconoscere i suoi untori.
Jair Bolsonaro e la politica del massacro
In tutto il Brasile, le terre indigene vengono depauperate per far spazio ad attività minerarie, agricoltura e taglio del legno. Se qualche progresso finora era stato fatto, la politica di Jair Bolsonaro ha riportato tutto indietro di decenni. «È un peccato che la cavalleria brasiliana non sia stata efficiente quanto quella americana nello sterminare i suoi Indiani», scriveva sul Correio Braziliense vent’anni fa l’attuale presidente del Brasile. Parole dure e inaccettabili, presto trasformate in fatti.
“Voi siete il presente. Io il futuro. Senza la foresta, non posso sopravvivere. Lottate per noi.”
I Guajajara lottano contro le politiche genocide di #Bolsonaro e l’invasione delle loro terre. Per i popoli indigeni, la terra è tutto.https://t.co/oE3zamP3T5#StopBrazilsGenocide pic.twitter.com/VPx2yosZqp— Survival Italia (@survivalitalia) December 8, 2020
Un popolo che non si arrende
Poco dopo il suo insediamento, Bolsonaro ha tentato di trasferire le funzioni del Funai, deputato alla regolamentazione delle riserve indigene, al Ministero dell’Agricoltura, togliendo, di fatto, ogni diritto ai popoli indigeni. Ma questi non hanno intenzione di arrendersi. Fortunatamente, almeno finora, il Congresso brasiliano ha respinto la decisione di Bolsonaro di spostare il Funai all’interno del Ministero dell’Agricoltura.
«Di fronte alla negligenza criminale perpetrata dal governo – si legge su Survival International – le organizzazioni yanomami e ye’kwana chiedono l’immediata rimozione degli invasori dalle loro terre, l’implementazione di un piano di emergenza per contrastare la Covid-19 e un programma per sradicare la malaria».
Saperenetwork è...
- Laureato presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza" in Scienze Ambientali prima, e in Ecobiologia poi. Attualmente frequenta, presso la medesima università, il corso di Dottorato in Scienze Ecologiche. Divulgare, informare e sensibilizzare per creare consapevolezza ecologica: fermamente convinto che sia il modo migliore per intraprendere la via della sostenibilità. Per questo, e soprattutto per passione, inizia a collaborare con diverse testate giornalistiche del settore, senza rinunciare mai ai viaggi con lo zaino in spalla e alle escursioni tra mare e montagna
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