Quando il “naturale” non fa bene all’ambiente
Non conoscono la crisi, anzi. Integratori e superfood rappresentano un mercato in crescita esponenziale, anche in tempi bui. Ma è bene conoscere differenze e qualità, e scegliere con cura. Senza cedere alle sirene del marketing
Se c’è un mercato che non conosce crisi neanche nei peggiori momenti è quello dei prodotti erboristici, degli integratori e dei cibi dalle presunte proprietà eccezionali. La quinta indagine di Federsalus sugli integratori è chiara: il mercato italiano, a fine 2019, valeva circa 3,6 miliardi di euro e il 65% della popolazione adulta italiana (32 milioni di persone) aveva utilizzato almeno uno di questi prodotti nell’anno trascorso, sia scegliendolo liberamente nei canali di vendita, sia dopo consiglio del farmacista o prescrizione medica.
Presentata oggi la V indagine di settore “La filiera italiana dell’ #integratorealimentare” a cura del Centro Studi FederSalus, condotta quest’anno con la collaborazione di @IQVIA_Italy e con due analisi di @_ELITEGroup_ e @intesasanpaolo https://t.co/LYEEeCRkV6 pic.twitter.com/hoPM8yfEzO
— FederSalus (@FederSalus) June 25, 2020
L’Occidente salutista e la fortuna di integratori e co.
Dietro questo successo commerciale c’è sempre più la maggiore attenzione verso il proprio stato di salute e di benessere, ma anche la possibilità di usare i prodotti fitoterapici come coadiuvanti nella soluzione di piccoli problemi che non richiedono l’assunzione dei farmaci. In particolare, è sempre maggiore l’interesse dei consumatori verso l’uso di prodotti naturali che vengono percepiti come innocui ma che fanno apparire i loro utilizzatori come consapevoli, interessati al mantenimento dello stato di benessere anche ambientale. La fuorviante contrapposizione tra il sintetico, cattivo, e il naturale come buono fa però spesso perdere di vista come anche la “medicina dolce” o l’uso di alimenti dalle presunte proprietà benefiche miracolose, i cosiddetti superfood, possano avere un notevole impatto ecologico.
Prodotti di laboratorio o della natura?
«Dovremmo prestare sempre attenzione – secondo il dottor Giuseppe Ventriglia, medico e docente al Master di Clinical Pharmacy dell’Università di Milano – all’origine delle sostanze contenute in un integratore alimentare (e non solo) e chiederci: da dove deriva? È prodotto in laboratorio o è derivato dalla natura? Basta pensare a quanta differenza c’è tra una vitamina C di derivazione naturale (per esempio da Acerola) in tutta la sua meravigliosa e non riproducibile complessità e ad un integratore con acido ascorbico prodotto in laboratorio». Sempre di più, tra l’altro, spiega il professore, si presta oggi attenzione alla biocompatibilità delle sostanze che assumiamo:
«Ci sono casi in cui un prodotto “artificiale”, di sintesi, è indispensabile per risolvere un problema di salute e allora il “bilancio” totale tra i suoi effetti benefici e il suo impatto ambientale è comunque positivo. E altri casi in cui il danno sull’equilibrio dei sistemi viventi prodotto dall’immissione di prodotti “non naturali” e quindi “non biocompatibili” non è giustificato».
Piante officinali, certificazioni e strategie integrate
L’impatto ambientale dei prodotti della salute è infatti spesso ignorato. Le aziende vengono sempre più incontro al loro target di riferimento certificando i loro prodotti e la possibilità di avvalersi di coltivazioni che usano strategie integrate per ridurre l’uso dei fitofarmaci è sicuramente un vantaggio in termini ambientali, con una ricaduta positiva sui terreni di coltivazione e le specie vegetali e, soprattutto, animali che in quei campi hanno il loro habitat. Secondo un rapporto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, le specie di piante officinali coltivate in Italia sono oggi oltre 100, ma 40 di queste occupano circa il 90% della superficie totale coltivata.
Piante spontanee versus monocolture
La coltivazione rispetto alla raccolta delle piante spontanee ha ovviamente lo svantaggio di dedicare a monocolture vaste aree, ma non può che avvantaggiare gli ambienti che non vengono depredati delle specie ricercate. Sempre maggiore attenzione c’è poi all’allestimento dei preparati erboristici in modo da sfruttare le energie rinnovabili, ai processi di estrazione per ridurre l’uso di solventi o all’ottimizzazione della resa con la nascita anche di progetti di studio dedicati. Resta però il problema, spesso misconosciuto, dell’uso di specie che vengono dai paesi in via di sviluppo.
Veridicità e decalogo ministeriale
Periodicamente fanno la loro comparsa sul mercato piante e frutti di cui vengono decantate le proprietà antiossidanti, l’eccezionale contenuto in vitamine e in fibre, le presunte attività coadiuvanti al dimagrimento. Premesso che non ci sono spesso dati attendibili che possano accertare la veridicità di queste affermazioni e che il Ministero della salute ribadisce, anche attraverso il decalogo al corretto uso degli integratori alimentari, che in un regime alimentare e di vita regolato l’integrazione alimentare non è necessaria, il consumatore è spesso portato a ritenere che se non fanno bene, comunque non fanno male, ignorando i danni ambientali ed economici delle manie salutiste occidentali.
Un mondo di promesse
Anche di questo parla in modo chiaro Renato Bruni, professore di Botanica Farmaceutica dell’Università di Parma, nel suo libro Bacche, superfrutti e piante miracolose (Mondadori, 2019) interamente dedicato a comprendere “il mondo degli integratori e dei cibi dalle mille promesse”. «A tutt’oggi – riferisce il professor Bruni – un gran numero di specie (e un grande volume di droghe vegetali) usate dall’industria dei prodotti salutistici deriva da piante prelevate da ambienti naturali. Questo, soprattutto quando le richieste di mercato aumentano o quando un certo prodotto ha un particolare successo, può generare uno squilibrio tra raccolta e rigenerazione naturale che impoverisce popolazioni naturali e biodiversità fino a portare alcune specie sull’orlo dell’estinzione. Dietro questo fenomeno c’è la stessa dinamica di creazione di questi prodotti, che vivono di mode improvvise e di scarsa pianificazione di filiera dovuta alla poca garanzia di proventi regolari».
…e di squilibri
Il professore spiega usando degli esempi concreti: «I casi del Pygeum africanum, di Harpagophyton procumbens, conosciuto con il nome comune di artiglio del diavolo, di Croton lechleri, da cui si ricava il lattice suggestivo nome di sangue di drago, e dei funghi del genere Cordyceps raccontano la medesima storia, con prezzi che si impennano quando materiali richiesti dal mercato diventano rari, aumentando così l’appetibilità economica di ulteriori raccolte». Ma la questione non si ferma all’aspetto economico:
«Purtroppo, i consumatori sanno molto poco sulla costruzione delle filiere di questi prodotti – aggiunge Bruni – e pensano anzi che sostenere piante poco note sia un modo per avere in impatto ambientale minore: quando i volumi commerciali crescono la raccolta spontanea è deleteria. Solo quando il mercato di una certa pianta si stabilizza diviene redditizio passare alla coltivazione, fermo restando che la coltivazione di queste piante, soprattutto quanto estensiva, soffre potenzialmente degli stessi problemi potenziali dell’agricoltura a fini alimentari».
I danni agli ecosistemi
Un problema che è stato anche affrontato in un articolo della British Ecological Society che ha evidenziato alcuni aspetti ambientali e sociali dell’aumento di richiesta mondiale di superfood. Gli autori sottolineano infatti il danno ecologico rappresentato dal disboscamento e dalla conversione alle monocolture di vaste aree: entrambi i sistemi causano infatti perdita di biodiversità sia vegetale che animale. Complessi ecosistemi che permettono l’esistenza di varietà spontanee e di piante pioniere vengono persi, con loro gli insetti e le popolazioni, ad esempio, di uccelli, che vengono sostituiti da quelle che si cibano dei frutti delle specie coltivate, che non trovano più l’ambiente ideale per nidificare.
Le conseguenze socio economiche
Ancora più complesso è lo scenario socioeconomico. Molte di questi cibi e piante dalle virtù eccezionali vengono da paesi poveri dove non esiste un sistema di equa ricompensa dei coltivatori, mentre i prezzi di vendita vengono gonfiati a ogni passaggio prima che i prodotti arrivino nei nostri scaffali. I contadini possono così diventare oggetto di estorsioni da parte di cartelli criminali che anche dai superfrutti hanno imparato a trarre profitto illecito e a usarli per il riciclaggio di denaro sporco.
Trasporto, lavorazione e impronta di carbonio
C’è in fine da considerare l’impronta di carbonio costituita non solo dalla coltivazione intensiva ma anche dalla lavorazione e trasporto fino ai paesi di vendita. È quindi chiaro come l’impatto di alcune coltivazioni possa incidere profondamente e negativamente sull’economia e le politiche ambientali di vasti territori.
Conoscere e saper scegliere
Una scelta consapevole deve anche passare attraverso queste conoscenze. L’attenzione dovrebbe essere quindi rivolta ai produttori che possono certificare la filiera di approvvigionamento delle materie prime e i processi di produzione. Non meno importante è resistere all’attrazione delle sirene del marketing: in fondo, se gli antiossidanti dei cibi possono fare davvero quello che promettono, per noi non fa poi molta differenza se provengono da una bacca di açaí o da quelle del più nostrano sambuco, ma la scelta che noi facciamo qui e ora può sicuramente avere un impatto immediato sull’ambiente e la vita dall’altra parte del Mondo.
Saperenetwork è...
- Calabrese di nascita ma, ormai da dieci anni, umbra di adozione ho deciso di integrare la mia laurea in Farmacia con il “Master in giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza” dell’Università di Ferrara. Arrivata alla comunicazione attraverso il terzo settore, ho iniziato a scrivere di scienza e a sperimentare attraverso i social network nuove forme di divulgazione. Appassionata lettrice di saggistica scientifica, amo passeggiare per i boschi e curare il mio piccolo orto di piante aromatiche.
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