Riapre l’acquario di Napoli, nella Giornata mondiale degli oceani. Parla il ricercatore Simonepietro Canese

La stella marina, qui insieme a un cavalluccio, è il simbolo dell'Acquario di Napoli

Riapre l’acquario di Napoli, nella Giornata mondiale degli oceani. Parla il ricercatore Simonepietro Canese

Tanto imponenti quanto fragili, a causa dell’impatto antropico, mari ed oceani del Pianeta versano in uno stato di grande sofferenza. La sfida per tutelarli è complessa e passa anche attraverso la sensibilizzazione, sulla quale la struttura culturale partenopea è impegnata

L’8 giugno è il World Oceans Day, una giornata dedicata ai nostri preziosi ecosistemi marini. Troppo a lungo deturpati, solo oggi ne comprendiamo l’importanza. Serbatoi di una biodiversità sconfinata perlopiù ancora sconosciuta e fornitori di servizi ecosistemici essenziali per la nostra sopravvivenza. La riapertura dell’Acquario di Napoli presso la Stazione Zoologica Anton Dohrn è un monito affinché degli oceani e dei mari si esplorino le bellezze in un’ottica di salvaguardia attiva e consapevole. Sul tema il ricercatore Simonepietro Canese del Dipartimento Infrastrutture di ricerca per le risorse biologiche marine, implementazione tecnologica e robotica ci spiega il suo punto di vista. In qualità di primo tecnologo della Stazione partenopea, il suo lavoro spazia dalla valutazione della distribuzione delle specie alla documentazione degli impatti antropici, fino alla pianificazione di programmi di monitoraggio. Il quadro che si profila non è dei migliori. Ma, come ci spiega Canese, darci per vinti o dare già per spacciati gli oceani non è la soluzione. Siamo ancora in tempo per operare un radicale cambio di rotta attraverso la collaborazione di tutti noi. 

 

Antonio Canese
Simonepietro Canese è primo tecnologo alla Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli

 

In occasione della Giornata Mondiale degli Oceani è prevista la riapertura dell’acquario della Stazione Zoologica Anton Dohrn. Fruire nuovamente di un luogo così affascinante, in una giornata tanto emblematica, è un’opportunità per focalizzare l’attenzione sull’importanza dei nostri ecosistemi marini. Come si è arrivati a questo momento?
L’acquario storico della Stazione Zoologica di Napoli Anton Dohrn riapre al pubblico dopo un lungo periodo in cui importanti interventi di ristrutturazione lo hanno trasformato in una modernissima struttura dotata di tutte le apparecchiature necessarie al mantenimento dello stato di salute delle specie che vi sono ospitate.

La ristrutturazione è stata effettuata mantenendo le storiche e bellissime architetture costruite nel 1872 dagli ingegneri e dagli architetti chiamati da Anton Dohrn, che già al tempo aveva un riguardo particolare non solo per le componenti scientifiche del suo istituto, ma anche per gli aspetti architettonici e artistici, intuendo il fortissimo legame tra scienza e arte di cui ci hanno parlato illustri divulgatori come, carissimo a tutti noi, Pietro Greco.

Sì, l’acquario della stazione è un luogo affascinante che proprio nel cuore di Napoli apre verso le profondità del mare. Gli abitanti di Napoli hanno un rapporto veramente particolare con il mare, da sempre considerato via di fuga dalle eruzioni del vulcano e fonte di sostentamento nei periodi difficili che la città ha attraversato, come nel secondo dopoguerra. Ogni giorno sono migliaia le persone che vengono a passeggiare sul lungo mare, proprio di fronte ai giardini della Villa Comunale dove sorge l’acquario. Il mare è per tutti i Napoletani una parte integrante della città, che rappresenta quell’orizzonte infinito dove spaziare con la fantasia, è caro a tutti i napoletani come lo era “l’ermo colle” a Giacomo Leopardi. L’acquario rappresenta un occhio aperto verso l’infinità degli oceani e delle profondità marine. La data scelta per l’apertura ha un forte valore simbolico, proprio in questo giorno, riapriamo gli occhi per ammirare le bellezze del nostro mare. 

 

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La sensibilizzazione dell’opinione pubblica è solo una sfumatura della più ampia sfida volta alla tutela di mari ed oceani del Pianeta. In qualità di ricercatore esperto sul tema, quali le possibilità offerte oggi dalla scienza per salvaguardare questi ecosistemi?
Per avere qualche possibilità di successo nella tutela dei nostri oceani, la sensibilizzazione dell’opinione pubblica non è solo una sfumatura. Dobbiamo per prima cosa guardare il mare con occhi diversi, dobbiamo vederlo non come un serbatoio inesauribile di risorse da cui per diritto più o meno divino attingere a nostro piacimento, oppure come un posto inconoscibile, dimora di mostri marini e creature selvagge. Dobbiamo capire che il mare è un ambiente molto complesso, che purtroppo le sue risorse non sono infinite, come non è infinito il suo potere di assorbire e diluire le sostanze inquinanti che riversiamo quotidianamente in esso e non è infinita la sua capacità di mitigare il riscaldamento climatico.

Il mare è una componente fondamentale della nostra esistenza come lo sono gli alberi e le foreste e il resto della natura che ci circonda. Trasferire queste informazioni è compito della divulgazione scientifica che deve essere in grado di tradurre in maniera comprensibile a tutti le informazioni e i dati che la scienza e la ricerca, alcune volte in maniera non comprensibile a tutti, ci forniscono.

 

 

La ricerca di sicuro ci fornisce la conoscenza, che si traduce in prassi e in strumenti tecnologici per la salvaguardia degli oceani, ma finché tutti i cittadini non faranno propria l’esigenza di proteggere questi ambienti, adottando comportamenti più rispettosi, si potranno compiere solo azioni dimostrative con un mediocre risultato a lungo termine. La frase che abbiamo sentito milioni di volte che conosciamo meglio la superfice di Marte che i fondali dei nostri oceani, secondo me non è più vera da parecchi anni. Negli ultimi 25 anni abbiamo fatto passi da giganti e sebbene non abbiamo esplorato ancora la maggior parte dei fondali oceanici, ne abbiamo esplorato una parte molto grande e oggi conosciamo bene i problemi dei nostri oceani e le rispettive cause.

Abbiamo capito che il sistema degli oceani è estremamente complesso, numerosissime variabili interagiscono fra di loro determinando la vita degli organismi che lo abitano.

Ogni giorno approfondiamo sempre di più le nostre conoscenze capendo come le variabili interagiscono fra di loro, ma siamo ancora lontani dall’avere un quadro definitivo del sistema. Man mano che però ci avviciniamo alla soluzione del problema capiamo sempre meglio gli effetti negativi delle attività umane. 

 

 

Attualmente, come definirebbe lo stato di salute degli oceani?
Oramai non vi è nessun dubbio su questo argomento, gli oceani sono in uno stato di grande sofferenza causata da una molteplicità di fattori tutti logicamente di origine antropica. Ti faccio un breve elenco con i problemi più importanti, tanto per comprendere la gravità della situazione: inquinamento, sovra sfruttamento da pesca, acidificazione, riscaldamento, aumento delle zone povere di ossigeno, perdita di biodiversità. Il Mediterraneo, essendo un piccolo oceano su cui si affacciano paesi estremante popolati, purtroppo prende la medaglia d’oro in quasi tutte queste categorie. Spesso mi chiedono: la situazione è grave ma siamo anche in una condizione irreversibile?

Abbiamo raggiunto il punto di non ritorno? Io rispondo: è sempre pericoloso dichiarare una guerra persa prima che lo sia veramente, si rischia di cancellare ogni possibilità di cambiamento e successo, ma dobbiamo prendere atto della gravità della situazione, perché la situazione è purtroppo veramente grave e richiede urgenti e drastiche misure per far fronte alla crisi, come abbiamo fatto per esempio per fermare la diffusione del coronavirus e come stiamo iniziando a fare per contrastare il global warming. 

 

Guarda il video sulle attività della Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli 

 

Tra le sue ultime pubblicazioni figura uno studio condotto per stimare l’impatto sugli habitat bentonici mediterranei di alcuni dispositivi di pesca. Brevemente, cosa è emerso?
I fondali dei mari italiani come quelle di molti altri paesi mediterranei soffrono, oltre che dei problemi di cui abbiamo parlato prima, anche di un grosso problema legato alla presenza di numerosi attrezzi da pesca persi o abbandonati. Stiamo parlando principalmente di reti utilizzate per la pesca che talvolta, per vari motivi, rimangono sui fondali generando una lunga serie di guai.

Per prima cosa questi attrezzi continuano a intrappolare pesci con un mortale effetto a catena in cui i primi pesci che restano impigliati e muoiono attirano altre specie che nel cercare di mangiarli finiscono anch’essi nelle reti. Ma questo purtroppo non è l’unico impatto, infatti le reti abbandonate sul fondo del mare soffocano quello che rimane sotto, essenzialmente spugne, coralli e gorgonie, trasformando il fondale marino in un deserto, dove pesci e crostacei non trovano più di che nutrirsi.

 

L'acquario di Napoli
La vasca tropicale dell’Acquario di Napoli (Foto dal sito fondazionedohrn.it)

 

Certamente un pezzo di rete fa un danno limitato, ma da quando, agli inizi degli anni 70, tutti i pescatori hanno iniziato ad utilizzare indistruttibili reti di nylon, i pezzi persi sul fondo del mare sono aumentati di giorno in giorno. Migliaia di imbarcazioni, che ogni giorno calano le loro reti lungo le coste italiane, spesso concentrando la loro azione nelle aree più pescose, ovvero le secche rocciose habitat di spugne coralli e gorgonie, hanno creato dopo 50 anni una situazione gravissima. Negli ultimi decenni la situazione è anche peggiorata a causa dell’espansione della pesca ricreativa di profondità.

Moltissimi pescatori, dotati delle migliori tecnologie per individuare le secche in mezzo al mare, calano le loro lenze catturando gli ultimi esemplari di pesci risparmiati dalla pesca professionale e talvolta perdono le loro lunghe lenze di nylon. Questo, quando cadono sul fondo, si attorcigliano sui rami dei coralli.

Queste lenze perse causano ferite che spesso provocano la morte di questi coralli, caratterizzati da una vita molto lunga e una crescita estremamente lenta. Finché non abbiamo avuto i robot sottomarini, necessari per esplorare questi habitat spesso molto profondi, abbiamo ignorato completamente il problema. Adesso, invece, abbiamo visto che non esiste, lungo tutte le coste italiane, un chilometro di fondale che si salvi dalla presenza di lenze o di reti perse o abbandonate.   

 

 

Nel complesso, l’impatto antropico, quindi, quanto incide sulla struttura e la funzionalità dei mari?
L’impatto antropico, in tutte le sue forme, dalla pesca al cambiamento climatico influisce sulla struttura e la funzionalità degli ecosistemi marini; stanno scomparendo le specie che hanno minori capacità di adattamento come, per esempio, gli squali che hanno una crescita lenta, una fecondità molto bassa e necessitano di un periodo molto lungo per raggiungere la maturità sessuale.

Stanno diminuendo molte specie di delfini e balene, minacciati dall’inquinamento, dalla cattura accidentale nelle reti da pesca, dall’impatto con le imbarcazioni, dall’inquinamento acustico, dall’ ingestione di plastiche che ne causano la morte. Stiamo perdendo le praterie di Posidonia oceanica a causa, anche in questo, dell’inquinamento e dell’erosione costiera. Molte specie di invertebrati planctonici si trovano a fronteggiare i problemi legati all’acidificazione che ne corrode il minuscolo scheletro calcareo fino al punto di farli scomparire.

Circa l’impatto antropico non sono in grado di dare una risposta definitiva, forse qualche collega che si occupa più di me di quantificare questi effetti avrà una risposta migliore. Ma  posso dire che per esempio, citando un recente studio di Paolo Albano, ricercatore della Stazione zoologica, lungo le coste del mediterraneo orientale, l’effetto dell’aumento della temperatura ha completamente trasformato il fondale marino, le specie del mediterraneo che erano presenti fino a pochi anni fa sono completamente scomparse e soppiantate dalle specie che arrivano dal Mar Rosso tramite il Canale di Suez: le uniche specie capaci di sopravvivere in un mare così caldo.

Con la pandemia è emersa una nuova categoria di rifiuti, ovvero i dispositivi di protezione individuale usati. Che opinione ti sei fatto in relazione al concreto rischio che l’inquinamento oceanico peggiori a causa di questi?
Sì… ci mancavano anche le mascherine a peggiorare la situazione. In effetti i dati dell’Ispra ci dicono che solo nel 2020 la quantità di mascherine e di guanti che sono stati utilizzati in Italia ammonta a una cifra compresa tra le 160mila e le 440mila tonnellate. Se pensiamo a quello che può essere stato il consumo mondiale di questi dispositivi di protezione individuale dall’inizio della pandemia ad oggi, potremmo raggiungere una cifra davvero spaventosa. Sono sicuro che la maggior parte di questi materiali sia stata smaltita in maniera corretta, ma mi aspetto anche che questa estate molte di queste mascherine verranno scambiate per meduse in molte spiagge e si degraderanno aggravando di sicuro il problema delle micro plastiche in mare.

Per prenotare le visite: Fondazione Dohrn

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Simone Valeri
Simone Valeri
Laureato presso l'Università degli studi di Roma "La Sapienza" in Scienze Ambientali prima, e in Ecobiologia poi. Attualmente frequenta, presso la medesima università, il corso di Dottorato in Scienze Ecologiche. Divulgare, informare e sensibilizzare per creare consapevolezza ecologica: fermamente convinto che sia il modo migliore per intraprendere la via della sostenibilità. Per questo, e soprattutto per passione, inizia a collaborare con diverse testate giornalistiche del settore, senza rinunciare mai ai viaggi con lo zaino in spalla e alle escursioni tra mare e montagna

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