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the great green wall doc

The Great Green Wall, l’Africa resiliente raccontata in 92 minuti

Un documentario toccante e coinvolgente, che narra di un viaggio nel Sahel lungo la Grande Muraglia Verde, l’ambizioso progetto nato per frenare l’avanzata del deserto. Jared P. Scott racconta un’Africa che non si arrende, e lotta contro cambiamenti climatici e instabilità sociale

23 Ottobre, 2020
2 minuti di lettura

Inna Modja, musicista maliana, è la protagonista e la voce narrante dell’ultima produzione del regista americano Jared P. Scott: The Great Green Wall racconta del progetto ideato dall’Unione Africana nel 2002 per contrastare l’avanzata del Sahara. Un processo di desertificazione esacerbato dai cambiamenti climatici che ha messo in ginocchio la regione del Sahel. L’idea di realizzare una barriera “verde”, sfruttando la messa a dimora di alberi autoctoni per rallentare gli effetti della siccità, è stata concepita per la prima volta dal biologo Richard St. Barbe Baker nel 1952. Il progetto quindi, pur avendo solide basi scientifiche, è stato ostacolato da un contesto sociale dilaniato da guerre e carestie, che nel documentario, presentato a Cinemambiente 2020, viene abilmente descritto e, in parte, stravolto.

 

Un viaggio nel cuore dell’Africa

Il lungometraggio racconta di un viaggio itinerante dal Senegal al Gibuti attraverso il Sahel, la regione africana maggiormente colpita dal cambio del clima. Inna, allo scopo di incidere un album per raccogliere fondi a sostegno del progetto africano, decide di percorrere quello che sarà il futuro percorso della Grande Muraglia Verde. Vittima di mutilazione genitale da bambina, la protagonista è visibilmente coinvolta, al punto da non riuscire a trattenere le lacrime in diverse occasioni. Perché in realtà, The Great Green Wall è molto più di un racconto di lotta ai cambiamenti climatici.

Guarda il trailer di The Great Green Wall

 

Le società subsahariane e i cambiamenti climatici

Il documentario mette in risalto un’Africa che soffre, dove la minaccia della siccità è solo l’ennesima aggravante. Durante le varie tappe, Inna incontra persone e comunità, attivisti, musicisti e migranti, ex soldati di Boko Haram ed orfani. Ma anche e soprattutto agricoltori, come El Hadji e Salieu, due fratelli che, come loro stessi spiegano, hanno scelto di restare e sopravvivere anziché scappare. Purtroppo, però, come viene evidenziato più volte nel corso del documentario, la scelta di migrare spesso è tutt’altro che libera. In un territorio già di per sé socialmente instabile ed economicamente povero, gli impatti dei cambiamenti climatici rischiano di portare al collasso le società Subsahariane, per questo andar via resta l’unica opzione.

La Grande Muraglia Verde, mosaico di risanamento

The Great Green Wall mostra però un altro volto dell’Africa in crisi. Un’Africa che non è solo migrazioni, guerre e carestie, ma anche un continente resistente, che reagisce, determinata a prendere in mano il proprio destino. In fondo, la Grande Muraglia Verde è proprio questo: far sì che le persone siano artefici del loro avvenire. Nel corso dei 92 minuti, così, a video-documenti reali di soprusi sociali, fame e devastazione, si alternano immagini di speranza e desiderio di cambiamento. La Muraglia Verde, intuitivamente concepita come una “linea”, viene via via intesa per la sua vera natura: un “mosaico di risanamento” che salva l’agricoltura e favorisce la coesione sociale.

 

Melodie di inclusione

Le melodie che accompagnano le riprese sono quelle dei brani della protagonista e di qualche gruppo con cui collabora, ma anche quelle tribali, delle varie comunità che vivono nei villaggi a ridosso di quella che un giorno, si spera, sarà una barriera “verde” di oltre 7 mila chilometri. La musica, mai semplicemente di sottofondo ma sempre al centro della narrazione, viene elogiata a strumento di inclusione sociale e motore di cambiamento.

Un’Africa artefice del proprio avvenire

Lungo la Muraglia, Inna si riscopre e realizza che fino a quel momento non aveva mai appreso appieno i problemi del suo continente. Nonostante le dolorose nuove consapevolezze, però, è ancor più determinata a fare la sua parte. Come portavoce di migliaia di africani, si avvicina alle istituzioni chiedendo sostegno ed atti politici coraggiosi che concretizzino gli sforzi e diano nuova speranza.

Speranza, che il regista ha saputo catturare nei volti delle persone incontrate da Inna, e che trapela dai loro occhi, quando a parlare non sono sguardi carichi di resa. Nel complesso, un documentario che racconta un’Africa resiliente, in grado di reinventarsi anche di fronte alle sfide imposte dal cambiamento climatico.

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