Fuori dal “greening” con la giustizia riparativa

La compensazione delle emissioni di carbonio fa la differenza a breve termine attraverso la conservazione o il rimboschimento delle foreste, mentre i cambiamenti climatici favoriscono gli incendi boschivi e contribuiscono al problema dei gas serra (Foto: pexels).

La fine del mondo può essere una opportunità redditizia per chi è in grado di capire come allontanare la paura. Si potrebbe sintetizzare così il messaggio lanciato da James Altucher e Douglas Sease nel libro The Wall Street Journal Guide to Investing in the Apocalyps. Spiega su Aljazeera Vijay Kolinjivadi, ricercatore dell’ Istituto di politica dello sviluppo dell’Università di Anversa, come, ad esempio, molto prima della pandemia da Covid-19 i due esperti di investimenti consigliavano di investire nelle compagnie farmaceutiche allo scopo di raccogliere dividendi dalle pandemie globali.

 

E poi, durante il Covid, dietro l’apparenza di agire contro la pandemia, miliardi di dollari sono stati versati nelle casse delle aziende farmaceutiche, invece che nella sanità pubblica e in politiche finalizzate a prevenire una nuova epidemia globale. Con il pretesto di agire contro i disastri, i governi e le aziende si sono unite per fare soldi, scrive l’economista nella sua analisi “We are ‘greening’ ourselves to extinction”.

False soluzioni alle crisi

Lo stesso modus operandi si potrebbe notare anche per gli investimenti nelle energie rinnovabili, senza indicazioni su una concreta sostituzione ed eliminazione di gas e petrolio, e per i tentativi di affrontare la crisi climatica con false soluzioni: dalla spinta a rimpiazzare i veicoli con motore a scoppio con quelli elettrici, alla cosiddetta “agricoltura intelligente per il clima”, dalle aree protette per la conservazione della natura ai progetti di piantumazione massiva di alberi per i crediti di carbonio.

«Tutto questo inganno si chiama “greening” ed è progettato per trarre profitto dalle paure del cambiamento climatico, non per fermarlo. Pur garantendo alti rendimenti, questo inganno equivale al genocidio di centinaia di milioni di persone che moriranno a causa degli effetti del cambiamento climatico entro il prossimo secolo», spiega l’economista ecologico.

Così, non può essere efficace la compensazione di carbonio se poi si consente ai “grandi criminali climatici” di continuare a inquinare in cambio di piantagioni di alberi. E questo perché «le organizzazioni che dovrebbero certificare che siano stati effettivamente piantati abbastanza alberi non hanno gli strumenti per verificare che le emissioni dichiarate saranno definitivamente assorbite. Un altro problema è che molte attività di compensazione in realtà non compensano nulla».

L’impatto reale

Le attività di conservazione hanno fruttato crediti, e allo stesso tempo hanno comportato gravi violazioni dei diritti umani, sgomberi forzati e le demolizioni delle case delle popolazioni locali. Gli schemi di compensazione del carbonio possono funzionare nel breve termine, con la conservazione e il rimboscamento delle riserve, ma gli incendi favoriti dalla attuale realtà climatica potrebbero far svanire tutti i progressi e contribuire addirittura al problema del gas serra.  La consapevolezze delle azioni individuali e collettive potrebbe fare la differenza nella lotta ai cambiamenti climatici, ma la confusione tra efficienza ed ecologia sembra ormai prevalere sulle nostre buone intenzioni. E quindi una nuova auto elettrica, un condominio “ecologico”,  una cannuccia di carta al posto di una cannuccia di plastica o un mega yacht a forma di tartaruga a energia solare sono etichettate come soluzioni ecologiche perché si suppone che siano più efficienti a livello di materiali o di energie. Ci dimentichiamo nel frattempo l’impatto ambientale che si nasconde dietro queste etichette verdi, ad esempio dietro la crescente industria dei veicoli elettrici.

L’estrazione del litio, per fare un esempio, potrebbe danneggiare le popolazioni indigene (solo in Africa 14 milioni di persone sono state sgomberate con la forza), e contaminare il suolo e distruggere la biodiversità.

 

 Guarda il video sul Global Biodiversity Framework

 

«Anche l’argomentazione che le soluzioni “verdi” forniscano posti di lavoro poggia su basi deboli, soprattutto se si considera la qualità del lavoro. Come ha sottolineato l’ILO, un’ampia quota di occupazione per le cosiddette “soluzioni basate sulla natura” è informale, a basso salario, temporanea ed esposta a rischi, come condizioni di lavoro non sicure, lavoro minorile e mancanza di sicurezza sociale», fa notare il ricercatore.

La transizione richiede nuove regole

Non si può pensare allora a una seria transizione ecologica senza una vera giustizia riparativa. Potrebbe risultare inutile, infatti, il Global Biodiversity Framework, che mira a trasformare il 30% del pianeta in aree protette entro il 2030, se si continua a praticare l’agricoltura su scala industriale, se si limita l’uso della terra al solo fine di aumentare i prezzi dei prodotti alimentari, se si utilizzano prodotti chimici, pratiche di allevamento dannose… Comodo il greening per i ricchi del mondo, vale a dire per coloro che hanno ottenuto vantaggi con la pandemia e la crisi climatica, per l’1% che detiene i due terzi della nuova ricchezza. Prosegue Vijay Kolinjivadi:

«il sistema attuale favorisce gli investitori dell’apocalisse, che farebbero di tutto per opporsi a una vera azione per il clima. Ecco perché, come ha sottolineato in modo eloquente l’attivista svedese per il clima Greta Thunberg, non possiamo salvare il mondo giocando secondo le regole, perché le regole vanno cambiate».

È quindi la giustizia riparativa, secondo Kolinjivadi, che restituisce alle persone il potere di decidere sul futuro delle comunità, attraverso organizzazioni autonome, il mutuo soccorso, l’agroecologia, l’affidamento delle terre da coltivare alle popolazioni indigene che sanno come proteggerla. Ed è giusto che «i governi storicamente responsabili del cambiamento climatico paghino per i danni che hanno causato. Le vittime presenti e future del cambiamento climatico dovrebbero decidere collettivamente come spendere questi risarcimenti».

 

 

 

Saperenetwork è...

Michele D'Amico
Michele D'Amico
Sono nato nel 1982 in Molise. Cresciuto con un forte interesse per l’ambiente.Seguo con attenzione i movimenti sociali e la comunicazione politica. Credo che l’indifferenza faccia male almeno quanto la CO2. Giornalista. Ho collaborato con La Nuova Ecologia e blog ambientalisti. Attualmente sono anche un insegnante precario di Filosofia e Scienze umane. Leggo libri di ogni genere e soprattutto tante statistiche. Quando ero piccolo mi innamoravo davvero di tutto e continuo a farlo.

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