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Una pattuglia della polizia a Washington, davanti al luogo dove Aaron Bushnell si è dato fuoco
Una pattuglia della polizia a Washington, davanti al luogo dove Aaron Bushnell si è dato fuoco (Foto: YouTube)

Aaron, il soldato con il cuore in fiamme

È morto per le gravissime ustioni riportate dopo essersi dato fuoco per protesta davanti all'ambasciata israeliana di Washington, il venticinquenne militare americano. Un gesto che dovrebbe farci riflettere sull'orrore della guerra, che lui non tollerava più
28 Febbraio, 2024
2 minuti di lettura

Aveva un volto da ragazzo, e con i suoi 25 anni un ragazzo lo era davvero, Aaron Bushnell, “membro in servizio attivo dell’aeronautica statunitense“, come si è definito lui stesso. Si è dato fuoco domenica 25 febbraio davanti all’ambasciata israeliana di Washington. «Non sarò più complice del genocidio. Sto per intraprendere un atto di protesta estremo. Ma, rispetto a quello che le persone vivono in Palestina per mano dei loro colonizzatori, non è affatto estremo. Questo è quello che la nostra classe dirigente ha deciso sarà normale».

Così ha detto poco prima di accendere la fiamma, mentre camminava, riprendendosi con il cellulare, verso la cancellata dell’ambasciata.

Il video, che Bushnell ha pubblicato, posizionando il cellulare a terra di fronte a se stesso, in diretta sulla piattaforma Twitch (che lo ha poi rimosso), riprende gli ultimi minuti di vita del giovane, lo straziante urlo «Free Palestine!», ripetuto più e più volte a squarciagola, prima che le fiamme gli spezzassero le parole, trasformandole in urla di dolore e rabbia.

 

 

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Una storia americana

È morto in ospedale per le gravissime ustioni riportate, e adesso la sua storia, riportata da tutti i media americani prima e poi internazionali, è già passata in secondo piano, o forse in primo piano non c’è mani nemmeno davvero stata. Perché fioccheranno le analisi e le supposizioni, frettolose, perché così conviene e perché lui, il ragazzo, in fondo non era nessuno, un ragazzo di San Antonio, Texas, uno come tanti, forse come quei tanti giovani americani che si arruolano per potersi permettere le rette del college, o un’assicurazione sanitaria decente.

Prima che l’oblio l’avvolga

Si dirà che tanto era pazzo, svitato, esaurito. Chissà. Sempre che se ne continui a parlare e che l’oblio non lo avvolga. Può darsi che davvero avesse gravi problemi mentali. Che fosse un estremista, un fanatico, uno fissato. E però questa storia è degna di essere raccontata dai grandi narratori americani. È degna di Steinbeck e Richard Ford, Russell Banks e Raymond Carver, persino di David Foster Wallace, ed è degna del Bruce Springsteen di “Darkness on the edge of Town” e “Nebraska”.

E di quei grandi che hanno saputo raccontare i dimenticati, gli oppressi e i losers prima che Donald Trump si appropriasse dei forgotten men per farne carne da macello elettorale.

 

Guarda il video di Atlantic City di Bruce Springsteen 

 

 

Cantore di oppressi

E viene in mente, da quest’altra parte del mondo, Il soldatino di stagno di Hans Christian Andersen, un altro grande cantore malinconico di oppressi, come oppresso era il soldatino della sua fiaba, prima da due bambini crudeli e viziati, poi dal fato, nelle vesti del crudele diavolo-pupazzo a molla che lo perseguita. Muore con coraggio, (e forse proprio per il troppo coraggio e per la troppa integrità) tra le fiamme, con la sua amata ballerina. Di lui, il giorno dopo, la governante di casa troverà un piccolo cuore di stagno, annerito dal fumo.

Quanto orrore ancora?

Chi fosse Aaron Bushnell non lo sappiamo. Non sappiamo chi era, come la pensava su tante cose, cosa facesse, che sogni e desideri avesse. Non sappiamo se avesse effettivamente delle turbe psichiatriche, né se fosse una sorta di foreign fighter (ipotesi alquanto improbabile, oltre che offensiva, ma su alcuni media Usa e soprattutto su X sta circolando). Tutto può essere stato. Però prima di classificarlo semplicemente come pazzo suicida e di archiviare il caso chiediamoci  quanto orrore e quanto dolore può aver visto nei pochi anni di servizio militare che portava sulle spalle. Poniamoci almeno questa domanda.

 

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Valentina Gentile
Valentina Gentile
Nata a Napoli, è cresciuta tra Campania, Sicilia e Roma, dove vive. Giornalista, si occupa di ambiente per La Stampa e di cinema e società per Libero Pensiero. Ha collaborato con Radio Popolare Roma, La Nuova Ecologia, Radio Vaticana, Al Jazeera English, Sentieri Selvaggi. Ha insegnato italiano agli stranieri, lingua, cultura e storia del cinema italiano alle università americane UIUC e HWS. È stata assistente di Storia del Cinema all’Università La Sapienza di Roma. Cinefila e cinofila, ama la musica rock, i suoi amici, le sfogliatelle e il caffè.
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