Siamo nell’Appennino delle Quattro Province, l’area a cavallo tra Alessandria, Genova, Piacenza e Pavia. Una “terra di mezzo”, spartita da confini amministrativi ma allo stesso tempo geograficamente e culturalmente piuttosto omogenea. Qui, tra valli che hanno alle spalle decenni di spopolamento, ha preso corpo il nuovo film di Paolo Rossi e Nicola Rebora, due documentaristi genovesi che hanno scelto la natura di questa porzione di Appennino per farne la protagonista di Dove l’uomo non è più sovrano. «Da quando l’uomo ha abbandonato queste montagne, la natura si è ripresa gli spazi che le erano stati rubati», si legge nella descrizione del documentario, finanziato dal basso grazie a un crowdfunding lanciato nel 2022. «I faggi riconquistano i pascoli, i carpini e le querce ricoprono le zone più impervie».
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La Natura brulica di vita. Soprattutto senza di noi
Cullati dalle poetiche immagini di martore, tassi, caprioli, volpi e vecchi castagni, Eraldo Minetti, ex commissario della polizia provinciale, viene intervistato dai fotografi, in qualità di testimone dell’evoluzione della flora e della fauna di questo territorio: «Resto affascinato dalla capacità della natura di ricoprire tutto ciò che è stato fatto dall’uomo. Quelle che un tempo erano case abitate, oggi sono completamente ricoperte dalla vegetazione». Interviene anche Andrea Zappia, storico e poeta, oltre che profondo conoscitore di queste valli, per parlare invece di quello che definisce il “tempo di reazione della natura”: «In silenzio e in maniera non pianificata ma estremamente performante, la natura riesce a divorare tutto quello che generazioni di persone hanno fatto con enormi sforzi, il tutto nel giro di qualche decennio». E proprio Rossi chiarisce, infatti, che proprio i castagneti rinselvatichiti a brulicare di vita:
«Nella nostra ricerca abbiamo trovato – e filmato – più vita selvatica nei boschi vecchi e abbandonati dall’uomo che nei boschi giovani situati in aree parco frequentate da turisti».
Altri mammiferi
Prende la parola, poi, anche Andrea Ambrogio, illustratore naturalista piacentino, abitante dell’alta val Trebbia emiliana, per raccontare di come questi territori, senza l’uomo, siano stati capaci di tornare profondamente selvatici. Così, allontanandosi dalla prospettiva antropocentrica, tutti i fotogrammi che ritraggono questo bosco apparentemente disordinato, castagneti seminati dagli antichi e oggi simili a foreste primitive, dimostrano che questo non è affatto vuoto e caotico ma semplicemente popolato da altri mammiferi che in relativamente poco tempo lo hanno trasformato in un condominio naturale, abitato anche da innumerevoli insetti. «Ora all’ombra di quei grandi alberi c’è una nuova generazione di tassi, volpi e lupi che sta imparando dai genitori le regole della vita», spiega Rossi, che sottolinea: «Con questo lavoro, vogliamo nel nostro piccolo sfatare il mito che il bosco rinselvatichito sia sporco, anzi! Costituisce una risorsa straordinaria per la catena alimentare di quel determinato luogo».
Martore, gatti selvatici. Nuove, antiche vite che tornano
La natura è, quindi, tutt’altro che immobile, sembra chiarire il cortometraggio, ed è anzi questo estremo dinamismo a essere foriero di nuova vita. Non è un caso, quindi, che proprio nei boschi senza esseri umani compaiano specie molto schive come la martora e il gatto selvatico. Nel documentario colpisce una scena unica nel suo genere che immortala un momento di interazione tra mamma gatta – selvatica, anzi sarvaega per dirlo alla genovese, come il titolo del film del 2020 proprio del documentarista, Felis, gatto sarvaego – e i suoi piccoli. E proprio grazie a queste prime immagini di Rossi e Rebora ora sappiamo che il felino non è solo di passaggio sull’Appennino ligure.
Un film da vedere, ma soprattutto un mondo da scoprire.