«Tenetevi per mano!» ci hanno raccomandato nell’atrio dove abbiamo lasciato scarpe, giacche e collane per indossare la veste bianca degli officianti, dei neonati, dei pazzi. Ma appena dentro, nel buio assoluto della sala, ecco che ad ognuno di noi cinque viene assegnato un cerchio disegnato per terra, una candela accesa, qualche sasso, un uovo. Al centro, il telo bianco dello spazio sacro dove il rosso di un’anguria spaccata si mescola alla nera terra, all’acqua, al fuoco. Tutto è sospeso, denso, come la musica che ci avvolge, ancestrale. Un magma vibrante di energia e di potenzialità, a volte meravigliosamente creatrice, altre foriera di morte e distruzione.
In principio era il Caos.
Comincia così Metamorfosi. Nel labirinto della memoria, l’ultima creazione per soli cinque spetta(t)tori del Teatro del Lemming di Massimo Munaro e dei suoi intensissimi interpreti Alessio Papa, Diana Ferrantini, Fiorella Tommasini, Katia Ragusa, Marina Carluccio e Silvia Massicci, andato in scena nei giorni scorsi nel Teatro Studio di Rovigo per festeggiare i 35 anni di attività del gruppo, a compimento di una ricerca durata oltre tre anni. Il lavoro era già pronto nell’estate del 2020 ma le regole imposte dal distanziamento sociale non avrebbero permesso la “relazione diretta, prossemica e sensoriale” che da sempre è la cifra della compagnia e che trova in questo nuovo appuntamento, la sua vera summa.
Gli elementi del loro teatro, almeno quelli della Tetralogia sul mito, ci sono tutti ed è proprio la recente esperienza delle restrizioni da pandemia a renderli, oggi, incandescenti. Mani che si stringono, corpi che si toccano, respiri e vicinanza sono azioni che abbiamo ormai imparato a temere, imbalsamati dalla paura del contagio. Con queste Metamorfosi, liberamente ispirate ad Ovidio, ma ci sono frammenti di Rilke, Dante, Merini e dello stesso Munaro, autore anche delle musiche, risorgono invece liberatorie e fondative, ribelli, quando non socialmente rivoluzionarie.
Quando poi i corpi sono quelli di un’attrice e di una spettatrice che la drammaturgia vuole sedute a giocare nello stesso cerchio, a guardarsi nello stesso specchio come ogni doppio che si rispetti, a giacere abbracciate nel letto rosso fuoco dell’ebbrezza o a cullare in un unico abbraccio la bambina da seppellire nella terra soffice, sono anche e ancora i gesti che interrogano e frantumano il senso più profondo del teatro e del suo essere atto misterico, mitico e catartico, in una società dove niente è ormai pregnante o essenziale.
Una cultura, la nostra, dove il rito o è annullato dal consumo feroce e dalla immaterialità oppure finisce ridicolizzato nella nevrosi mattutina delle colazioni mulino bianco style.
Davanti ad ognuno di noi cinque siedono a turno gli attori-sacerdoti in un crescendo di sguardi e di gesti che agganciano, turbano, emozionano, disorientano: dovrò prenderla, quella mano che mi si offre? Rispondo alle domande antiche che mi bisbigliano? Mi volto, a guardare chi dietro le spalle incarna l’ombra e i miei mille spettri? La sala è satura di frasi e immagini preziose amplificate e sussurrate dal vivo che vorrei fermare, ma se provo a pensare non riesco ad essere pienamente presente e questi attori potenti esigono la stessa assoluta dedizione del loro offrirsi. Travolti dal flusso delle parole, delle sensazioni, dei ricordi, nonostante la tunica, siamo spogliati dentro. Ma sono nudi anche loro, gli attori, chiamati in ogni replica ad un corpo a corpo spinto oltre il limite. Come sostengono gli sguardi, l’imbarazzo, le lacrime degli spettatori?
La loro fatica la senti nei muscoli vibranti, nella tensione che avvolge come un campo magnetico, nel sudore sulla pelle.
Ed ecco che veniamo portati via, ad uno ad uno, inghiottiti dalle sette stanze di un labirinto dai colori alchemici: bianco, nero, rosso. Perché il rito è collettivo, perché il caos o il cielo da cui ci incarniamo è osmotico, ma poi ognuno viene al mondo da solo e da solo, dopo essere stato «foglia, lupo, vecchio, bambino, montagna, ancora vecchio e poi bambino…», s’incammina lungo la strada della vita.
«Ci hai dimenticato!, rimproverano le voci. «Sei tu il creatore», «Non invecchierai se conosci te stesso». «Non ti voltare mai!». La nascita, l’infanzia, la tenerezza, l’angoscia, la morte. Edipo, Persefone, Antigone, Orfeo: ogni tappa è luogo simbolico e archetipico, ma è qui che ciascuno spettatore, traghettato dagli attori-Caronte, vivrà il suo labirinto, un personalissimo viaggio onirico nei meandri dell’inconscio e della memoria. Per questo, l’ultima stanza è quella bianca del riposo, del sonno ninnato che lenisce e cancella, che trasforma e ristora. Piange come un bambino, il giovane uomo che mi riposa accanto.