Che meraviglioso testo è La notte poco prima della foresta di Bernard Marie Koltès. Cinquant’anni dopo il fulminante esordio ad Avignone del 1977, questo monologo per voce sola, disperazione e pioggia non perde una briciola della sua attualità e della ruvida, scomoda bellezza che lo innerva. Molti anche in Italia, dopo la prima volta molto “off” di Andrea Adriatico nel 1991, sono saliti sul ring del corpo a corpo attoriale e registico che il testo richiede (da Giulio Scarpati a Claudio Santamaria fino alla pillola nazionalpopolare che Pierfrancesco Favino recitò alla serata finale del festival di Sanremo del 2018) e l’ultima sfida è quella lanciata da Babilonia Teatri di Enrico Castellani e Valeria Raimondi, premiatissima compagnia veronese che festeggia vent’anni di teatro radicale e dissacrante.


Lingua madre
Foresto si intitola il loro adattamento, ovvero “straniero” in dialetto veronese, andato in scena al Teatro Biblioteca Quarticciolo di Roma (sarà a giugno a Zona K a Milano). «Opera Estate Festival di Bassano propose lo scorso anno a tre compagnie di tradurre questo testo in palermitano, napoletano e, appunto, veronese» ha raccontato Castellani al termine dello spettacolo. «Tradurre Koltès nella nostra lingua madre, ci ha permesso di avvicinarne la durezza e la poesia, di masticarlo, digerirlo e risputarlo nei ritmi e nei suoni di un dialetto sporco, istintuale, vicino allo slang e alla pancia».
Apartheid interiore
Foresto da “foris”, ciò che viene da fuori ed è estraneo, un’alterità assoluta e irriducibile perché di questo parla Koltès nel vagabondare della sua notte e in tutti i suoi capolavori, dell’essere straniero ontologicamente, per razza, lingua, orientamento sessuale, sensibilità visionaria; di un’apartheid interiore, sociale e politica che potrebbe redimersi solo con l’incontro, la ricerca di una stanza-casa, la salvezza di un ragazzino abbandonato “che bastava una bava di vento per portarlo via”. Mentre arrivano sul web le immagini dei “foresti” deportati e ammanettati da Trump e si abbandonano le strutture albanesi per i foresti che avrebbero voluto assaltare il nostro paese, Babilonia Teatri sceglie di portare in scena un’altra estraneità, quella dell’handicap.


Handicap e diversità
A interpretare lo spettacolo è dunque il giovane performer sordo Daniel Bongioanni («Sono, siamo sordi – ha dichiarato con orgoglio indicando anche i molti sordi presenti tra il pubblico – Sordi, non “non udenti“») a cui si deve la non facile traduzione nella lingua dei segni e una fisicità intensa, espressiva e pregevolissima.
Nel palco vuoto e nero, le sue mani disegnano nell’aria la pioggia, l’incontro con un compagno di sventura a cui vorrebbe offrire una birra e raccontare di sé, della ragazza incontrata sul ponte che scompare, come l’acqua, della foresta in Nicaragua dove un generale e i suoi soldati sparano a qualunque cosa si muova oltre il fogliame delle chiome, degli specchi che lo assalgono e del gruppo di ragazzi che proprio dal gesticolare hanno dedotto la sua diversità e hanno cominciato ad inseguirlo per le strade. Anche l’handicap rende “foresti”, stranieri, estraniati, esclusi. Basti pensare che la Lis è stata riconosciuta una lingua a sé solo nel 2021.
Trittico di voci
Il monologo di Koltès, comunque affollato di immagini, odori, suoni – basti pensare al continuo rimando alla pioggia, agli specchi e ai personaggi sbandati del peregrinare notturno – si moltiplica in Foresto in un trittico che vede in scena Bongioanni con il suo monologo di espressioni e gesti, Castellani che recita il testo nella sua sincopata e cruda versione veronese (con tanto di traduzione italiana proiettata sullo sfondo) e Giovanni Frison che suona live la voce elettronica e martellante della sua musica ideata per lo spettacolo.


Fiumi in piena
Sono tre fiumi in piena che scorrono ora paralleli, ora in sincrono. Tre solitudini nella notte che gridano amore, martellanti, reiterate, liminali. È un gioco di specchi, di voci, di linguaggi, un tentativo di dialogo tra note e mani, parola udita e scritta, monologhi deliranti che a sprazzi trovano il conforto di uno spicchio di prato, la fugacità di un’appartenenza, la tranquillità del silenzio subito rotto dai pensieri, dal flusso joyciano di una parola che non può più tacere.
Koltès, il drammaturgo geniale morto a quarant’anni nel 1989, che si diceva senza radici, che cercava “solo” di star bene nella propria pelle in “un punto di contatto tra la lingua francese e il blues”, resta nel suo affabulare affilato e pasoliniano uno dei cantori più crudeli e poetici del nostro presente, a cui ci fa bene tornare, per non dimenticare chi siamo e cosa vogliono farci diventare.
Sguardo nella notte
Foresto ci spinge a dilagare lo sguardo per includere nella notte e nella foresta ogni diversità possibile e lo fa con uno spettacolo potente e necessario, vibrante e teso.


Il teatro, l’arte quando è vera, dimostra ancora una volta di essere luogo dell’incontro e dell’inclusione non retorica, dell’interrogarsi, della denuncia.