Il sanscrito “Ma-nam” per dire ciò che misura, costruisce, estende, abbraccia? O il greco “manòs” che indica ciò che è poco compatto e aperto? Quale etimologia ci porta più vicino alle radici del più straordinario elemento del nostro corpo? La mano è l’uno e l’altro, naturalmente, mille altre cose ancora. È misura perché da sempre contiamo il mondo a furia di palmi e pollici e sulle nostre dita, come ancora fanno i bambini (e non solo). È strumento che edifica, crea, inventa, opera e agisce. Arto che si apre all’altro nel saluto e nell’incontro, ma anche nell’apertura, in ciò che non è chiuso e dato. Per questo la mano è anche il cuore del do-man-dare che presiede ogni crescita, ogni risposta, ogni passo educativo.
Mano è estensione del cuore e non ci sono mani più sapienti in questo di quelle della madre, come ricorda Massimo Recalcati nel suo “Le mani della madre” (Feltrinelli, 2015):
«Le mani di una madre sanno ospitare la singolarità insostituibile e irripetibile del soggetto senza ridurre le sue cure a una serie di adempimenti eseguiti magari con solerzia e precisione ma senza alcun desiderio»
Sono, le mani materne, l’espressione perfetta di quell’arte di far posto all’unicità dell’altro, che Simone Weil definiva «grazia dell’attenzione», la manifestazione più pura e degna della cura. Come ciascuno di noi viene alla luce accolto dalle mani della madre, così l’umanità tutta è figlia delle mani.
Ce le abbiamo davanti tutti i santi giorni, le diamo così per scontate, che raramente prestiamo attenzione alla mirabilità della loro architettura: 27 ossa, 19 muscoli, 23 gradi di libertà (vuol dire 23 possibilità di movimento per adattarsi a un compito), nervi, tendini e muscoli e intorno un’epidermide estremamente sensibile. Voilà! Un esempio biomeccanico insuperabile che circa 200mila anni fa, grazie all’opposizione del pollice rispetto alle altre dita, ha deciso il nostro grande salto verso l’intelligenza e il linguaggio. Come noi siamo tripartiti – abbiamo sostanzialmente una testa che pensa e ospita molte attività sensorie, poi un torace dove batte il cuore, si respira e sembrano annidarsi tutte le emozioni e un apparato metabolico-riproduttivo e locomotorio che è costantemente in movimento – così nella mano possiamo riconoscere nella punta delle dita un tastare conoscitivo, nel palmo il calore della carezza, nel pollice una vocazione volitiva.
Guarda l’intervento di Richard Sennet alla Fondazione Feltrinelli di Milano
(2009, sottotitoli in italiano attivabili)
Quando le mani interagiscono con il mondo, quando toccano, impastano, intrecciano, impilano, insomma fanno e fanno esperienza, la mente impara perché crea un modello interiore del mondo. E quanto più l’esperienza si ripete, quanto più la mielinizzazione diventa efficiente ed efficace. Quando, invece, ci limitiamo al digitare, quando la mano e la mente divorziano, allora, dice il, sociologo statunitense Richard Sennett, «è la testa a soffrirne». Le mani hanno capacità conoscitive persino più raffinate degli occhi. Toccando percepiamo tanti elementi che l’occhio può non ravvisare: peso, temperatura, forma e, cosa ancora più importante, il significato, il valore intrinseco di ciò che prendiamo in mano.
Il neurofisiologo scandinavo Matti Bergström ha cercato di metterci sull’avviso da tempo: se nell’infanzia e nella giovinezza non mettiamo in movimento le nostre mani rischiamo di diventare «finger blind», ciechi nelle dita, e danneggiati inesorabilmente nella capacità di riconoscere il valore delle cose e i valori diversi dai nostri. Ogni bambino sarà tanto intelligente quanto sono abili le sue mani. Ogni bambino avrà la stessa memoria delle sue mani, perché le mani sono in tutto le nostre maestre, sanno, ri-cordano, anche quando il cervello non ram-menta. Dal mettere le mani in pasta, giocando e creando, i bambini apprendono e se mentre imparano si sono messe in movimento anche le emozioni, tanto meglio.
Purtroppo, sempre più spesso, le mani dei bambini sono volatili e nervose, oppure molli e timide, rifuggono dal toccare, dallo sporcarsi, dallo sperimentare e dal mettersi in gioco. Intanto, noi educatori, per comodità, abbiamo abolito i bottoni a favore delle chiusure lampo e i lacci delle scarpe per il velocissimo velcro. Intanto, noi stessi, in obbedienza ai tempi vertiginosi del vivere frettoloso, giriamo il sugo mentre stiamo al cellulare, un occhio ai bambini e uno al tg, i gesti sempre più meccanici, le mani sempre meno coscienti, con i bambini che guardano e assimilano genitori robotizzati, sdoppiati, inevitabilmente poco presenti a loro stessi: difficile, allora, pretendere dai bambini e dai ragazzi concentrazione, attenzione, interesse.
Se la vita è incontro, se educare è crescere insieme nella sfida della relazione, sono le mani che con forza, intelligenza e calore ci permettono di entrare in con-tatto con ciò che circonda noi e i nostri bambini.
Oggi che per legge non ci possiamo toccare, abbracciare, massaggiare, la sfida vera sarà quella di risvegliarci alla potenza piena di senso della manualità.
Una poesia per concludere
Ringraziare desidero
perché su questa terra esiste la musica
per la mano destra e la mano sinistra
e il loro intimo accordo!
Mariangela Gualtieri