L'illustrazione di Valerio Vacchetta per Sapereambiente (aprile 2021)
L'illustrazione di Valerio Vacchetta per Sapereambiente (aprile 2021)

Lo starnuto di Suez

Un blocco di appena sei giorni, compromettendo l’intero commercio mondiale, ha mostrato il lato più oscuro del trasporto marittimo. Instabile e ad alto impatto ambientale, è il momento di ripensarlo
1 Aprile, 2021
3 minuti di lettura
L'illustrazione di Valerio Vacchetta per Sapereambiente (aprile 2021)
L’illustrazione di Valerio Vacchetta per Sapereambiente (aprile 2021)

 

Articolo di Simone Valeri

Cinquanta imbarcazioni al giorno, un ottavo del commercio mondiale. Questo è il Canale di Suez, un punto nevralgico del trasporto marittimo mondiale. Eppure, è bastato poco per mandarlo in tilt. Il blocco causato dall’incagliamento della Ever Given ha determinato perdite pari a nove miliardi di dollari al giorno. Basti pensare che l’import e l’export italiani sono affidati per il 40% al canale egiziano. Un valore che, nel 2020, ha toccato gli 83 miliardi di euro. Non solo, l’evento che negli ultimi giorni ha bloccato il 12% del commercio globale ha anche rivelato limiti e fragilità del trasporto marittimo. 

Meno navi, più diritti umani

Navi sempre più grandi per equipaggi sempre più piccoli. Sono davvero necessarie? Rispetto ad 8 anni fa, la dimensione media delle imbarcazioni che percorrono il canale è cresciuta del 12%. Parallelamente, grazie all’automatizzazione di buona parte delle operazioni di guida, gli equipaggi si sono ridotti al minimo indispensabile. Quei pochi che ci lavorano, lo fanno al limite dei diritti umani. «Persone povere provenienti da paesi poveri – scrive il giornalista Gwynne Dyer – a cui non è neanche permesso di scendere a terra quando le navi si fermano brevemente nei porti». La maggior parte dei beni di consumo trasportati giornalmente via mare, se non fosse per l’abbattimento dei costi, potrebbe benissimo essere prodotta molto più vicino a dove è richiesta. Tanto, a pagare le conseguenze di questa scelta dettata dalla globalizzazione e dal consumismo è, come al solito, l’ambiente. 

Una nave, la CO2 di cinquanta milioni di auto

Il trasporto marittimo inquina come un quarto di tutte le auto dell’Ue. È quanto è emerso da un rapporto pubblicato dalla Ong europea Transport and Environment. La Ever Given, da sola, produce quotidianamente un inquinamento pari a cinquanta milioni di automobili. Nel 2018, il settore navale ha emesso, infatti, circa 139 milioni di tonnellate di CO2. Un quantitativo di emissioni spaventoso che è costantemente aumentato a partire dal 1990. Rispetto a trent’anni fa, le tonnellate di anidride carbonica emesse da navi container e da crociera sono aumentate del 19%, ovvero, circa 26 milioni in più. 

Gli oli combustibili pesanti

Il processo di combustione che alimenta le navi merci è poi particolarmente inquinante per un motivo ben preciso. A bruciare perlopiù, infatti, sono gli oli combustibili pesanti (hfo). O meglio, ciò che resta alle fine della fase di distillazione del petrolio dopo che gli idrocarburi più leggeri, come benzina e gasolio, sono stati rimossi. Il 60% delle navi che attraversa il delicato Artico, ad esempio, sfrutta proprio questa alternativa maggiormente inquinante. «Il basso prezzo, sommato al fatto che generano più energia a parità di volume – si legge in un recente report della Pame (Protection of the Arctic Marine Environment) – è sicuramente alla base della popolarità di questi combustibili». Nonostante ciò, il commercio marittimo è stato escluso dal sistema di quote delle emissioni inquinanti definito per la prima volta con il Protocollo di Kyoto. In alternativa, l’Organizzazione marittima internazionale (Imo) è stata incaricata di ridurre le emissioni del settore. L’organizzazione ha annunciato una cauta riduzione del 50% delle emissioni entro il 2050, tuttavia, non comincerà a farlo prima del 2030. 

Invasioni aliene

Tornando al Canale di Suez, c’è poi un altro impatto ambientale da considerare: l’invasione del Mediterraneo da parte di specie aliene provenienti dal Mar Rosso. Ad oggi, solo lungo le coste mediterranee israeliane, si contano oltre 400 specie esotiche, un numero almeno doppio rispetto a trenta anni fa. Le specie aliene, individuate come una delle principali cause di perdita di biodiversità a livello globale, competono in una lotta alla sopravvivenza spesso impari con le più vulnerabili specie autoctone del nostro bacino. Se non avessimo mai avuto la necessità di aprire il Canale di Suez, è chiaro che non sarebbero mai arrivate, o almeno non in queste proporzioni. 

Aggirare l’Africa

Il Canale egiziano resta comunque un’opera strategica indubbia, sulla cui realizzazione si bramava già intorno al 1800 Avanti Cristo. Chiaramente, evitare di circumnavigare l’Africa non è cosa da poco. Ironia della sorte vuole però che, alla luce delle criticità emerse nell’ultimo mese, si stiano ripensando le rotte commerciali marittime. Tra le possibilità al vaglio, figura proprio quella di tornare ad aggirare il continente africano. Pirati permettendo. 

Ripensare le rotte. E non solo

Non vi è ombra di dubbio che ad essere ripensata dovrebbe essere la sostenibilità del trasporto marittimo. La misura migliore sarebbe ridurre il volume di merci che viaggiano via mare ed aumentare la pressione dell’opinione pubblica affinché il settore riduca le proprie emissioni. Sul fronte delle rinnovabili, dal momento in cui nessuna batteria avrebbe l’autonomia necessaria alle navi merci, possiamo confidare solo in una nuova generazione di mercantili alimentati ad energia eolica. 

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