
È nelle città che vivrà circa il 75 percento della popolazione mondiale tra meno di trent’anni. E’ alle città, dunque, che dobbiamo guardare per comprendere tutti i pericoli – le immagini sconvolgenti di Valencia sono l’ennesimo, e speriamo non inutile, monito alla gestione del territorio – monitorare le tendenze e preparare il futuro prossimo. È dedicato alle città il nuovo, illuminante, eruditissimo e godibilissimo libro di Ben Wilson, giovane (è nato nel 1980) storico e ricercatore di Cambridge, noto anche al pubblico televisivo britannico, già autore di quel monumentale Metropolis (edito in Italia sempre dal Saggiatore) in cui ripercorre settemila anni di storia delle città, da Uruk a New York, e di cui questo Giungla urbana rappresenta l’ideale continuazione e completamento.

Welcome to the (Urban) Jungle
Da sempre le città sono entità voraci e rapaci: divorano il territorio circostante, bruciano le foreste, seppelliscono i fiumi naturali, dissanguano il pianeta di risorse: «risucchiano enormi quantità di energia e nutrienti solo per espellerli sotto forma di inquinamento, scarichi fognari, calore e rifiuti solidi, oppure li rinchiudono in falde acquifere e discariche (…); negli ecosistemi urbani non c’è circolarità, è un processo lineare, una strada a senso unico». Ogni giorno, leggiamo, viene urbanizzata un’area vasta quanto Manhattan mentre almeno 423 città in rapida espansione stanno divorando gli habitat di tremila specie animali a rischio di estinzione, tanto in Amazzonia, quanto nella regione indo-birmana, passando per la Cina e Addis Abeba, mentre Giacarta ha già inghiottito quasi duemila chilometri quadrati della vegetazione che sorgeva ai suoi margini, decretando così il suo prossimo suicidio.
Tra uomo e natura
Il rapporto e la convivenza tra uomo e natura trova proprio nella città il suo punto cruciale. In tutto il mondo, scrive Wilson, la città ha rappresentato la possibilità di costruire un contesto antropico produttivo e controllato in cui la natura si esprime solo nella versione addomesticata dei giardini, il cui ultimo diktat è la distesa verde e venefica del prato all’inglese.
Le città, quanto meno le città del mondo occidentale, si sono sviluppate all’insegna della dicotomia cultura-natura: dentro le mura il vivere civile, la legge, il commercio, la politica e aldilà della cinta il selvatico, l’irriducibile, l’infestante da dominare e tenere a bada.
Eppure, è proprio nella trasformazione di questo rapporto che possiamo scoprire il vero punto di svolta verso un futuro nuovo, sostenibile, virtuoso. Oltre all’irrefrenabile vocazione a distruggere gli ecosistemi vicini e lontani, le città sono uno dei più interessanti laboratori di recupero della biodiversità e di riduzione dell’inquinamento.
Ode a erbacce, animali e luoghi marginali
Grandi protagonisti sono proprio loro, le erbacce e i luoghi marginali, le paludi e gli alberi invasivi, gli animali (dalle lontre ai cinghiali, dalle volpi ai nibbi) che stanno ricolonizzando gli spazi lasciati incolti dalla cementificazione o che sanno facilmente adattarsi alle condizioni estreme delle metropoli. Questo Elogio delle erbacce per citare il libro ormai famoso di Richard Mabey e il sottotitolo dell’ultimo testo di Antonio Perazzi diventa nell’enciclopedica carrellata di Wilson la scoperta di dati e notizie sempre sorprendenti. Che siano i fiori di campo sbocciati tra le rovine di Londra e Berlino dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale o la foresta di Delhi sottratta dai pastori gujjar alla speculazione; che si tratti delle zone umide lungo del coste del Mar Giallo sopravvissute all’urbanizzazione o del riciclaggio dei rifiuti di Freshkills Park a New York; che si parli degli orti parigini post rivoluzione o dell’agricoltura urbana africana; che si vada a lezione dai giardini del moghul Babur o dall’incredibile sistema idrologico della capitale azteca Tenochtitlàn, gli innumerevoli esempi di questo affascinante viaggio nel tempo e nello spazio ci esortano a prendere l’unica direzione possibile.
La strada della salvezza passa per l’abolizione massiccia delle automobili, per l’accoglienza della fauna e della flora selvatiche e resistenti, per nuovi attacchi di “greenades” come fu al tempo del Guerrilla gardening.
Insomma, per l’integrazione. Solo integrando la natura, promuovendo la giungla in città, potremo vedere il mondo urbano come qualcosa che esiste “in” natura, non separato da essa. E le città rovesciare il loro destino per diventare i siti di conservazione della natura del XXI secolo.
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