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Antonio Cederna, in un'immagine degli anni Ottanta, alla sua Lettera 32 (Foto: Giovanna Borgese)
Antonio Cederna, in un'immagine degli anni Ottanta, alla sua Lettera 32 (Foto: Giovanna Borgese)

Il mio amarcord di Antonio Cederna

Una passeggiata dentro Villa Pamphili, a Roma, nel maggio di cinquant'anni fa che diede il via ad un lungo rapporto da "maestro" a "discepola".  Grazia Francescato, già presidente del Wwf Italia, esponente di primo piano della cultura ambientalista, ricorda il suo legame con Antonio Cederna SPECIALE ANTONIO CEDERNA: Trenta righe sull'ambiente, se non succede qualcosa, di ANTONIO CEDERNA SEGUI IL LIVE MERCOLEDì 27 OTTOBRE ALLE ORE 17.00 con interventi di Fulco Pratesi, Gianfranco Amendola, Grazia Francescato, Roberto Della Seta, Francesco Erbani, Giulio Cederna, coordina e Rosy Battaglia
26 Ottobre, 2021
1 minuto di lettura
Amarcord. Maggio 1971, mi pare, qualche tempo prima dell’apertura al pubblico di Villa Doria Pamphili. Con un gruppo di giornalisti “veri” (io mi ero intrufolata, giovanissima aspirante alla professione, come reporter di un bollettino universitario) seguo un funzionario del Comune che ci guida alla scoperta dei luoghi. Mi incanto davanti al Casino dell’Algardi e agli scampoli di vigne e piccoli stagni che evocano il passato  aristocratico, ma anche agricolo della Villa.
Sono naturalmente tutta orecchi; tra quelli che spero un giorno di chiamare “colleghi” c’è un signore alto e sottile che avevo già sbirciato, senza osare avvicinarlo (così severo quel suo profilo di aquila! così guizzanti d’ironia beffarda, a tratti, lo sguardo!) nella sede di Italia Nostra, cui mi ero iscritta nel 1970, appena arrivata a Roma dal natio paesello sul Lago Maggiore.
Era Antonio Cederna, intento a scoccare taglienti commenti sulle procedure, secondo lui segno di desolante insipienza, con cui si stava procedendo all’apertura al pubblico.  Scoprii così la perenne indignazione civile di Antonio e la altrettanto perenne minaccia contenuta nell’avverbio “ANCORA”, da lui molto usato. Esempio:

«Questo viale è ancora perfetto. Ma se spalancate al pubblico senza pensare a come custodire le statue a lato, le troverete decapitate e rubate». E via ammonendo e denunciando, con un tono indignato e ferocemente dolente che, avrei poi scoperto, era il suo usuale contrassegno.

Cominciò così un rapporto, non d’amicizia (troppo grande la distanza tra noi, non solo cronologica) ma “maestro/discepola” che è continuato fino a quando ci ha lasciati e che mi ha insegnato non solo i fondamenti della difesa del paesaggio, dell’ambiente, dell’identità storica ma soprattutto il valore della passione civile, della schiena diritta e di una cultura del rigore applicata prima di tutto a se stessi.
I “grazie” che ti dicevo allora li posso ripetere oggi, più profondi e consapevoli.
Mielizia
Mielizia
Mielizia
Resto sfuso

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