«Ci sono due modi di dire nell’ambito dei paesi artici: “Quello che succede nell’Artico non resta nell’Artico”, e poi: “Tutti i paesi sono rivieraschi dell’Artico”». Parte da qui Leonardo Parigi per spiegarci perché l’Artico è vicino, nonché centrale per il nostro futuro, in un momento nel quale parliamo di Groenlandia come mai prima e il contrasto agli sconvolgimenti climatici appare in forte ribasso. Fondatore e responsabile del portale Osservatorio Artico, dopo una laurea in Scienze politiche internazionali all’Università di Genova e di Pavia, con un’ampia esperienza nel campo della comunicazione, lo abbiamo intervistato a pochi giorni dalla quarta edizione di Italia chiama Artico: un evento non solo per addetti ai lavori, con interventi di esponenti istituzionali, docenti universitari, aziende e centri di ricerca che si terrà martedì 25 febbraio a Bologna, nell’Auditorium Biagi di Salaborsa. Così ci anticipa lo scopo di questo appuntamento:


«Vogliamo mettere a confronto le diverse realtà che in Italia si occupano di questa regione. E spiegare che è molto più vicina a noi di quanto s’immagini”.
Leonardo Parigi, come nasce il progetto Osservatorio Artico?
Nel 2011 ero in Danimarca, ci sarebbero state le elezioni in Groenlandia e avevo letto che c’era la possibilità che diventasse autonoma. Per la mia tesi in scienze politiche internazionali mi trovai, tra gli altri, a intervistare un ex colonnello dell’esercito danese. Gli chiesi cosa sarebbe successo se la Groenlandia fosse diventata autonoma: «Ce la riprenderemmo manu militari il giorno dopo», rispose. Capii la portata del tema e iniziai a collezionare dati e interviste. Dopo la laurea ho collaborato con diverse testate per promuovere il tema soprattutto negli ambiti più di immediato interesse per l’Italia, che sono quello climatico e quello economico. Il sito osservatorioartico.it è nato nel 2018 e due anni e mezzo fa è diventato testata giornalistica.
Ci introduce alla conoscenza di questa preziosa regione del Pianeta?
L’Artico comprende otto paesi. Ci sono cinque stati costieri, Canada, Stati Uniti, Russia, Norvegia e la Danimarca con la Groenlandia. Sono i padroni di casa, perché per l’Artico non esiste un trattato come per l’Antartide. Il trattato dell’Antartide ha fatto sì che questo continente, che è terra coperta di ghiaccio, fosse preservato e vi si potessero fare soltanto attività di carattere scientifico di ricerca, almeno fino ad oggi, mentre nella regione artica non esiste nulla di questo tipo. Quindi i cinque stati costieri possono fare quello che vogliono per diritto internazionale. In più sono considerati stati artici anche Finlandia Svezia e Islanda. Questi otto paesi si sono riuniti nell’Artic Council, nel 1996, un forum intergovernativo che promuove la cooperazione internazionale e la gestione sostenibile dell’Artico. Prevede anche dei membri osservatori, complessivamente 38 fra cui, dal 2013, l’Italia. L’Artic Council riunisce realtà diverse e soprattutto dà un potere politico e di rappresentanza ai popoli indigeni dell’artico, ma dopo lo scoppio della guerra in Ucraina i suoi lavori sono stati congelati.


Avevamo letto che era stato utilizzato il metodo del consenso, da parte dell’Artic Council, per arrivare a decisioni il più possibili condivise…
L’Artic Council aveva molto da insegnare ed è rimasto come parametro per la diplomazia. Si parlava, infatti, di “eccezionalismo artico”: per una ventina d’anni nazioni e visioni molto differenti hanno convissuto bene. Soprattutto per quanto riguarda la condivisione di dati in ambito scientifico si è lavorato tantissimo. Tuttavia, l’Artic Council non ha potere decisionale su sicurezza e difesa, quindi molte questioni vengono dibattute ma il rischio è mancare di incisività al momento opportuno. Inoltre, negli ultimi due anni sia Finlandia che Svezia sono entrati nella Nato. Quindi degli otto stati artici sette sono membri della Nato e poi c’è la Russia. L’estate scorsa Putin ha dichiarato che se Mosca non sarà reintegrata all’interno del Consiglio artico con pari dignità sarà costretta a creare un organismo parallelo, magari con altri stati, tra cui India e Cina. Cosa molto pericolosa: non ha senso un Artic Council se non vi si può parlare e trattare con chi possiede il 50% del territorio artico, cioè la Russia. È un momento storico particolare, che ancora non riusciamo a leggere chiaramente, ma la morte dell’eccezionalismo artico pare certa.
E poi c’è la questione della Groenlandia. Un’isola di cui, fino alle ultime presidenziali Usa, si parlava poco e che adesso sembra invece un crocevia di nuovi equilibri…
La Groenlandia è ricca di risorse naturali, in particolare di terre rare, che ci servono per andare avanti nella transizione energetica e in quella ecologica. Consideriamo che oggi il 90% delle terre rare le possiede la Cina, se le è assicurate in tanti anni in cui ha stretto accordi bilaterali e comprato miniere in giro per il mondo. Tuttavia la Groenlandia, che è grande come l’Europa intera, non ha un’autonomia economica. La maggior parte della popolazione viene sovvenzionata da Copenhagen, eppure la Groenlandia non vuole più essere della Danimarca, a causa del colonialismo del Novecento.
La Danimarca ha portato avanti pratiche disumane nei confronti degli Inuit, sono stati massacrati da un punto di vista culturale, migliaia di donne sono state sterilizzate con la forza… Il ricordo è ancora fresco. Oggi, ogni anno la Danimarca spende circa 600 milioni di euro per sostentare queste persone che non hanno più sussistenza anche perché noi occidentali gli abbiamo detto che cacciare la balena è sbagliato, cacciare la foca è sbagliato, eccetera. Gli Inuit cacciavano per sussistenza e hanno perso i mezzi di sostentamento e insieme anche dei riferimenti culturali. Questo ha dato il via a problemi di alcolismo, come accadde ai nativi americani negli Usa, anche il tasso di suicidi è molto alto, non tanto perché fa freddo e il tempo è brutto, ma perché i ragazzini vedono su Instagram un mondo performante e con un senso storico che loro oggi non hanno…


Come si inseriscono le mire di Trump in tutto questo?
Trump si inserisce con questa boutade rivolta alla Groenlandia che tanto boutade non è: “Venite da noi per sviluppare commerci e diventare ricchi come gli americani”. A dicembre, intanto, la Groenlandia ha aperto il suo primo aeroporto commerciale a Nuuk, la capitale, e dopo due mesi scarsi ci sono già quattro voli commerciali che tutte le settimane da New York vanno a Nuuk. Nel contempo, i marines sono già sul territorio della Groenlandia perché esiste la base di Thule (Pituffik in lingua nativa, ndr) che risale alla guerra fredda e ci sono infrastrutture militari. La Danimarca non avrebbe la forza di difenderla e averne un controllo totale: stiamo parlando di un territorio sconfinato. Per la prima volta negli ultimi tre anni gli Usa hanno nominato un ambasciatore dell’Artico, hanno creato un nuovo centro di ricerca e addestramento in Alaska e stanno spostando truppe, mentre grazie a degli accordi bilaterali dispongono di alcune basi militari dentro la Finlandia.
Trump sta cercando di sottolineare che la Groenlandia di fatto è già Usa, sebbene per decenni gli statunitensi abbiano sottovalutato l’Artico, dicendo che aveva un’importanza regionale. Dall’altra parte c’è la Russia, che invece ha investito tanto nella regione, dispone infatti di 41 rompighiaccio di cui una decina a propulsione nucleare mentre gli Usa ne hanno appena due di cui uno rotto. Insomma, sono in atto cambiamenti geopolitici radicali di cui la questione della Groenlandia è solo la parte manifesta.


Veniamo al cambiamento climatico in Artico, che va rapidissimo. Perché interessa anche l’Italia?
Perché gli impatti riguardano tutti i settori, anche in Italia. A livello economico, ad esempio, c’è la questione portuale. In Artico non c’è più ghiaccio in estate al largo delle coste russe, ed è possibile aprire nuove rotte di navigazione stabili durante tutto l’anno. Consideriamo che il 90% delle merci che acquistiamo fa in media almeno un viaggio navale, tendenzialmente dalle coste asiatiche segue la rotta sud a largo delle coste indiane: fino all’anno scorso entrava nel canale di Suez e nel Mar Rosso per poi accedere nel Mediterraneo, nei porti italiani e da lì all’Europa. A causa degli attacchi dei pirati Houthi nel canale di Suez le navi mercantili ora sono tornate alla rotta ottocentesca di circumnavigazione dell’Africa, vale a dire più chilometri, più costi, più ritardi e più inquinamento.
La rotta marittima di nord-est, su cui la Russia ha investito miliardi di rubli negli ultimi dieci anni, invece parte dalle coste asiatiche e passa a nord al largo delle coste artiche russe, con 24mila chilometri di costa. Se le navi percorressero questa rotta arriverebbe nei porti europei con 12 giorni in meno di navigazione. Un risparmio importante per gli armatori, contando che un giorno di navigazione costa fino a 200mila dollari. Tutti benefici per i russi e per i cinesi che si svincolerebbe dai colli di bottiglia nei quali devono passare oggi, controllati dagli Usa o da loro alleati. Questa “sostituzione” delle rotte non accadrà domani, ci sono tante dinamiche stagionali e tecniche da gestire, ma la rotta esiste già: in questo momento è bloccata dal conflitto fra Occidente e Russia, ma quando riprenderanno i dialoghi è probabile che sia facilitata negli ambiti commerciali. Che impatto sarebbe per i porti italiani che rimarrebbero del tutto esclusi? E per la nostra manifattura?


Questo dà concretezza alla vicinanza dell’Artico di cui ci parlava. L’impatto ambientale è anche più drammatico?
Se in Italia, con 1.5 °C in più, al Sud vediamo in atto la desertificazione, alle isole Svalbard ora si misurano anche 2.5 °C in più rispetto alle medie storiche. Un effetto sarà l’innalzamento delle acque. Più si scioglie la calotta groenlandese più l’innalzamento interesserà l’Italia. Milioni di mq di acqua dolce oggi in Groenlandia creano fiumi che vanno a mare, non è mai avvenuto con questa rapidità e con questo flusso. Le proiezioni ad oggi ci dicono che nell’arco di alcuni decenni o secoli potrebbe esserci un innalzamento dei mari anche di dieci metri, per esempio la Pianura padana sarebbe sommersa dalle acque. E nell’arco di 30-35 anni si prevede già un innalzamento di 70 centimetri. Come sarebbe gestibile un simile cambiamento a Venezia? Già oggi la fusione dei ghiacci ci riguarda nel quotidiano: ad esempio relativamente al pescato, ma anche alla fauna che si sposta perché non riesce a cacciare.
È l’unico fenomeno su cui vigilare?
Assolutamente no. Ci sono gli incendi in tutta la Svezia. Fronti di chilometri di fuoco che però, essendo le aree molto vaste e in larga parte non abitate, spesso non sono visti in modo tempestivo e stanno distruggendo il polmone verde d’Europa. Canadair italiani sono già andati a fare attività di spegnimento in Scandinavia. Poi c’è la questione del permafrost che rappresenta un quarto di tutte le terre emerse. Questo permafrost contiene cadaveri, carcasse virus, batteri… La prossima pandemia potrebbe venire da lì. Inoltre, il permafrost contiene bolle di metano, gas sette volte più climalterante della CO2. Non si ha idea di cosa potrebbe succedere con la fusione del permafrost, si sta studiando da appena dieci anni, senza uno storico. Di quanto potrebbe aumentare la temperatura media globale? I modelli dell’Ipcc non ne tengono conto.
Come si rapporta il nostro paese a questo contesto così cruciale?
L’Italia è molto attiva e presente nell’Artico, ad esempio dal 2017 ogni anno mettiamo in acqua una missione di ricerca a guida della Marina Militare italiana cha fa una mappatura dei fondali, studia le colonne d’acqua, monitora il “clima acustico subacqueo” e altro ancora. Tutti i dati vengono cartografati e messi a disposizione della comunità internazionale. Siamo inoltre tra i pochissimi stati europei ad avere una postazione di ricerca fissa alle isole Svalbard con una torre meteorologica, dove si alternano ricercatri da CNR e Enea, glaciologi, micropaleontologi. È molto importante dare visibilità a tutti questi temi e questioni. Parlarne solo come “emergenza” disincentiva la responsabilizzazione del singolo e del collettivo a livello politico.


Bisogna affrontarle, mettendo in capo delle strategie forti, per trovare le soluzioni.